Silvia Romano torna a casa e passa dalle grinfie dei terroristi a quelle dei connazidioti. Più volte, in questi giorni, mi sono chiesta se sia meglio non scriverne, non parlarne, non dare spazio, puntare dito e riflettori su personaggi con cui non scambierei parola neanche al bar o sul bus.

Poi mi ricordo che sono mamma di una bambina. E allora penso di avere il dovere di scriverne e parlarne perché un giorno potrei dover spiegare a mia figlia che in questo Paese conta quello che hai addosso e non quello che sei.

I sovranisti, i complottisti, gli odiatori seriali del nostro tempo abbiamo imparato a conoscerli. Non risparmiano nessuno, stanno lì, famelici, con le loro faccine anonime illuminate dai monitor in attesa di trasformare l’odio in bit. E se la preda è di sesso femminile danno il meglio di sé. Precisiamo: gli haters non sono solo di sesso maschile, spesso sono proprio le odiatrici a sputare il miglior veleno.

A mia figlia un giorno dovrò raccontare che la prima notizia bella del 2020 fu la liberazione di una ragazza italiana, ostaggio per diciotto mesi di terroristi incappucciati, in Africa. Tutti felici fino a quando non ha posato piede sul suolo italico in un lungo abito somalo. La connazionale in pochi minuti diventa l’ingrata amica dell’uomo nero. Se rientri in jeans, sventolando tricolori e rosari, sei dei nostri, ma coperta dal Jilbab sei un nemico, spreco di denaro pubblico.

Liliana Segre. Sopra. Silvia Romano

E quando tua figlia si appresterà a conoscere la storia, con i suoi orrori e le sue conquiste, da genitore dovrò spiegare che nel Paese in cui è nata è stata assegnata la scorta ad una signora di 89 anni perché, rea di essere sopravvissuta all’Olocausto e di essere stata nominata senatrice a vita, riceveva centinaia di insulti e minacce dal web.

Spiegherò, a mia figlia, con un po’ di imbarazzo, che le giornaliste della tv, seppur con un brillante curriculum, venivano derise perché non avevano i capelli ben fonati e che la predica arrivava da lucidi capelli in prima serata che devono il loro successo a un bel culo da pubblicità.

Racconterò di come si parlò per giorni della mise di un ministro della Repubblica nel giorno del giuramento. Troppo blu, troppo grassa. Ministro che, in quello sventurato 2020, si è macchiata del reato di un femminile pianto, annunciando in tv la regolarizzazione dei migranti che lavorano nei campi. Quegli invisibili che raccolgono pomodori che tu, predatore da tastiera, mangi a tavola coi tuoi bambini.

Dovrò raccontare di quella estate in cui una ragazza tedesca, salvando vite in mare, fu derisa per i suoi dreads, per l’imperdonabile assenza di reggiseno e make-up. Rossa di vergogna racconterò che al porto di Lampedusa la offesero dandole della puttana per aver salvato degli africani.

Carola Rackete

E quando mia figlia vivrà in prima persona lo scempio che abbiamo arrecato al pianeta le racconterò di quella ragazzina svedese che si batteva per i cambiamenti climatici, anche lei, abbondantemente offesa per sue le trecce e la sindrome di Aspenger.

C’è tanto da raccontare. E bisognerà spiegare che, nonostante le lotte nel vecchio Novecento, le donne vengono uccise in casa, subiscono discriminazioni sul luogo di lavoro, sono giudicate sempre nel loro ruolo di madre, di casalinghe, di lavoratrici; ruoli che spesso non convivono armoniosamente.

Devo aspettarmi che mia figlia, ad un certo punto, mi chiederà conto e ragione del perché abbiamo permesso ad orde di ignoranti anonimi di infangare, sputare addosso, denigrare.

Ma soprattutto come giustificheremo che tra questi c’erano senatori, deputati, sindaci, giornalisti? Con non poco imbarazzo dovremmo ammettere che lo Stato ha finanziato giornali con titoloni carichi di odio sessista e razzista.

Greta Thumberg

Quasi a voler farsi complice, quasi a voler giustificare, in nome della libertà d’informazione, l’onda nera di oscurantismo e di disprezzo che minaccia tutte le altre libertà.

Mia figlia è una bambina, c’è ancora tanto tempo davanti per proteggerla dalle brutture del mondo, ma una domanda mi grava addosso: cosa stiamo facendo per non permettere che, in un giorno futuro uscendo di casa, le nostre figlie vengano ancora giudicate per una gonna troppo corta o troppo lunga?

Marina Mongiovì