“La gabbia e il cielo” (Navarra editore), l’ultimo libro di Natya Migliori (giornalista e saggista molto impegnata), è un viaggio in Sicilia fra le anse dei fiumi Imera, Platani e Salso, alla ricerca degli ultimi minatori di Sicilia, attraverso i frammenti delle miniere di zolfo e della loro storia controversa.

Il suo bel volume (232 pagine, foto di Avarino Caracò e Lello Fargione, prefazione di Attilio Bolzoni) parla di un mondo misterioso e scomparso, pieno di dolore, di rabbia e di poesia. Il mondo degli zolfatari del centro dell’Isola, una vita sempre al buio, una luce solo desiderata ed una esistenza – quella che che scorre fuori – solo immaginata.     

L’idea di Natya “nasce dalla profonda consapevolezza – dice – che la memoria delle zolfare, gli stessi mestieri legati al mondo dell’oro giallo si perderanno insieme agli ultimi custodi di quella storia. E dalla conseguente esigenza di immortalarne racconti, aneddoti, volti”.

Ed è questa “memoria” che l’autrice ha voluto acchiappare, prima dell’estinzione definitiva, attraverso le testimonianze raccolte, le descrizioni, le poesie, le parole dei vecchi zolfatari.

La prima parte del viaggio comincia dalla miniera-museo Trabia Tallarita, a Riesi, in provincia di Caltanissetta. Qui è ancora possibile intuire l’antico splendore dei macchinari, della teleferica, del villaggio dei minatori. Ma da qui ha anche inizio il percorso attraverso il lato oscuro di quello splendore: le morti, gli incidenti, le condizione degli operai ai limiti della sopravvivenza.

Le testimonianze dei minatori portano il racconto a Sommatino, dove della florida economia mineraria resta solo la cementificazione del paese e delle esistenze. E a Serradifalco, dove a prendere la parola sono i versi dell’ultimo dei carusi: Giuseppe Cordaro, il poeta minatore.

La seconda parte del libro si sposta a Casteltermini, in provincia di Agrigento, all’interno della miniera di Cozzo Disi, dove si può toccare con mano la discesa agli inferi che giorno dopo giorno portava i minatori a ottocento metri sotto terra, dentro la gabbia, a bramare un cielo che avrebbero forse rivisto alla fine di una giornata fatta di rischi e preghiere.

Il viaggio, come a chiudere un cerchio, si conclude a Caltanissetta, nel silenzio permeato di tragedia del “cimitero dei carusi”, a Gessolungo.

Ogni capitolo porta il nome dei minatori a cui è lasciato il compito di raccontare, di portare chi legge indietro nel tempo, nelle viscere della terra, fra le piaghe ancora aperte di una vita senza sole.

Attraverso le parole di Salvatore, Sebastiano e Nicola anche le lotte dei minatori diventano parte integrante del viaggio. La terza parte del libro, grazie a loro, ripercorre gli scioperi e le conquiste sindacali, fino all’inesorabile declino per mano dell’Ente Minerario Siciliano, alla chiusura definitiva, alla seconda morte: il fallito restauro.

Un’appendice finale non poteva non raccontare l’ombra della mafia, il lato oscuro dell’oro giallo, dalle “origini”, con don Calogero Vizzini e gli altri, agli anni Sessanta, con Graziano Verzotto, segretario regionale di Democrazia Cristiana nonché figura chiave dei legami fra cosa nostra, politica ed Ente Minerario.

Dal momento in cui sono state raccolte le testimonianze (2019, era pre-covid), Salvatore Drago, caruso di 102 anni, e Giuseppe Cordaro, il poeta minatore, e Nicola Boccadutri, purtroppo hanno abbandonato questa vita. Ma sono loro ad aver lasciato forse le tracce più indelebili in questo viaggio.

Quello che segue il brano di un capitolo del libro:

La copertina del libro. Sopra: la scrittrice Natya Migliori

La Cozzo Disi, comincia a raccontare Vincenzo Termini, ottant’anni anni, è una delle miniere di zolfo più grandi d’Europa ed è stata l’ultima delle zolfare siciliane ad essere chiusa. Ho chiuso io questa miniera,  proprio io, l’ultimo giorno: il 4 novembre del 1988. Ho provato una grande rabbia. Una rabbia immensa.

Come tutti gli altri del gruppo, Vincenzo non vede l’ora di entrare. Non gli capita da tempo di tornare nel sottosuolo, nel ventre della sua storia personale. Nei suoi occhi leggo brama di aprire il grande cancello che ancora ci separa dalle gallerie. Ma anche tanta amarezza. Probabilmente la stessa di trentaquattro anni fa.

In attesa che arrivi il custode, comincio a rivolgergli qualche domanda. Vincenzo è un po’ impacciato. Si ferma spesso, le sue frasi sono spezzate. Sembra molto timido. O forse è solo a disagio. Mi colpisce il suo italiano ‘doppio’. Un po’ sgrammaticato, con frequenti scivolate nel dialetto, ma non sbaglia un colpo quando si tratta di termini e concetti tecnici. Glielo faccio notare, complimentandomi per la sua evidente conoscenza della materia mineraria.

Dell’ arte mineraria! – tiene a puntualizzare. – In effetti ho passato tanti anni fianco a fianco con i periti e gli ingegneri, là sotto, e ho imparato la lingua!, mi spiega, ridendo.

Mi parli di Cozzo Disi. Questa miniera parla. È piena di storie, anche terribili.

Quando fu aperta, proprio alle sue origini, sono morte novantadue persone qui dentro. Era il 1911 o 1912, non ricordo bene. Novantadue persone sono rimaste intrappolate. Dopo che i padroni avevano dato fuoco per estrarre il minerale, la situazione sfuggì di mano per lo scoppio dell’antimonio. Quando arrivarono i tecnici capirono subito che non c’era niente da fare: l’incendio si era propagato troppo. Non restava che chiudere le uscite delle gallerie per soffocarlo ed evitare che distruggesse tutto. Ma dentro c’erano ancora gli operai… Tanto a quei tempi non costavano niente le persone. Costava più un mulo che trasportava lo zolfo dentro alla miniera che una persona. Grazie alla grande conoscenza che avevano della miniera, quei minatori riuscirono ad orientarsi fino all’uscita, persino al buio. Ma la trovarono sbarrata. E morirono tutti di una morte orribile. Avevano visto in faccia la salvezza e subito dopo la morte. Dopo anni, dietro una delle porte delle gallerie, furono trovate le loro ossa. Uno solo si salvò. Dopo sedici giorni riuscì ad uscire vivo. Vagava intrappolato qua sotto, quando la lampada si spense perché era finito l’olio e rimase completamente al buio. Un buio che solo un minatore sa e può immaginare. Conosceva benissimo anche lui però queste gallerie. Ad un certo punto sentì ronzare una mosca. Riuscì a seguire la mosca, che certamente andava verso l’aria. Arrivato ad una ciminìa, una presa d’aria, cominciò ad urlare, non potendo fare nient’altro. Qui fuori stanno sempre dei pecorai, anche adesso. Sentendo questo lamento, i pecorai chiamarono il proprietario della miniera e lo liberarono, mettendogli  prima una coperta addosso per evitare che si accecasse con il passaggio dal buio pesto alla luce del giorno. Questo racconto è famoso fra i minatori che sono passati da questa miniera. Lo stesso sopravvissuto ha raccontato poi in un libro i giorni passati là sotto, impressionato dai lamenti strazianti dei compagni che sentiva da lontano. Imploravano di morire…E questa è solo una delle tante storie di questa miniera. Ne ha tante storie Cozzo Disi. Proprio tante.

Quando finalmente il custode arriva e ci apre, ci vengono dati i caschetti protettivi e due torce. Poche, ma possiamo utilizzare i telefonini per farci luce.

Redazione