Sono stati complessivamente 68 i governi e 31 i presidenti del Consiglio dei ministri che, dal 1946 a oggi, si sono succeduti nel nostro Paese. Durante la Prima Repubblica ne abbiamo avuti ben 50 in 48 anni (media: 0,96, quasi un governo l’anno!); nella seconda, ci è andata un po’ meglio, perché si sono avvicendati 18 governi in 30 anni (media 1,66). Tanti comunque. Ciò a discapito della programmazione e della continuità dell’azione politica, spesso frenata dalle esigenze dettate dalle frequenti tornate elettorali.

Ma la Repubblica non è mai entrata in fibrillazione e la democrazia non ha corso seri rischi, nemmeno nel 1964, col Piano Solo, ordito dal generale Giovanni De Lorenzo, col benestare dell’allora presidente della repubblica Antonio Segni; o nel 1970, quando fu tentato da Junio Valerio Borghese un colpo di Stato, poi abortito sul nascere.

Successivamente, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, durante gli anni di piombo, la giovane democrazia italiana, sebbene ancor fragile e zoppicante, ha dimostrato maturità dinanzi alla violenza degli attacchi eversivi portati da destra (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero) con la strategia della tensione, e da sinistra col terrorismo rosso di ispirazione comunista (Potere Operaio, Autonomia Operai, Brigate Rosse, Prima Linea).

Infatti, sebbene i governi fossero di breve durata, il sistema ha retto, grazie alla presenza di un assetto istituzionale che ha posto il Presidente della Repubblica al centro, come arbitro e punto di riferimento dello Stato.

Certamente, a livello internazionale, la continua giostra di ministri che hanno rappresentato il nostro Paese in questi anni nei diversi tavoli degli organismi di cui facciamo parte, ha concorso a rafforzare l’immagine di una democrazia retta da governi deboli e privi di vision e programmazione.

Nella realtà, invece, le grandi scelte strategiche di politica estera ed economica del nostro Paese sono diventate, dal 1946 e fino al 1994, di “sistema”, per la presenza costante della DC in ogni coalizione di governo, poiché condivise con lievissime differenziazioni da tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento anche dopo il venir meno della Prima Repubblica.

Ciò ha garantito la continuità dell’azione politica, malgrado l’apparente fragilità delle stesse coalizioni e l’avvicendarsi degli opposti poli alla guida del Paese. Inoltre, alla prova dei fatti, durante le frequenti crisi extraparlamentari, il sistema delineato dalla Costituzione ha mostrato sempre la sua forza, valorizzando la figura dell’arbitro di riferimento, imparziale per tutte le forze politiche.

Ciò ha determinato la vera stabilità della Repubblica, in cui appunto il Presidente, con la durata settennale del suo mandato, è diventato punto di riferimento costituzionale e reale dei tre poteri dello Stato, sciogliendo al bisogno le camere, quando veniva meno la possibilità di assicurare al Paese una nuova maggioranza parlamentare politica o tecnica.

Inoltre, è stata ed è sua la scelta del Presidente del Consiglio, come anche la nomina dei ministri. Non in modo arbitrario, ovviamente, ma orientato dalle indicazioni delle forze politiche e del voto popolare. Il ruolo di garante dell’unità nazionale e della Costituzione, punto di riferimento imparziale di tutte le forze politiche, gli ha conferito l’autorevolezza necessaria per regolare e mediare i poteri dello stato (Governo, Magistratura, Parlamento), assicurando al Paese la continuità necessaria anche nei momenti di crisi.

La riforma attualmente in discussione in Parlamento ne limita fortemente il ruolo, nel tentativo di rafforzare quello del Capo del Governo. Paradossalmente, si tenta di fortificare un potere, quello del primo ministro, a discapito di un altro, quello del Capo dello Stato, con l’investitura del voto popolare che vincola e condiziona le scelte successive, legando di fatto le mani allo stesso arbitro.

E francamente, molti oggi non comprendono perché per rafforzare i governi occorre indebolire l’unico potere dello Stato che ha sempre espresso garanzie di equilibrio e moderazione. Se la fragilità è determinata dalla durata, che a sua volta è condizionata dai giochi parlamentari, basterebbe forse rafforzare il sistema della composizione della stessa maggioranza a sostegno dei singoli governi, attraverso una seria riforma elettorale, lasciando invariato l’ordinamento dello Stato e l’equilibrio tra i poteri, vero capolavoro dell’architettura ordita dai padri costituenti.

Nella foto: il Parlamento italiano

Nino Pulvirenti