La notizia – seppure sotto forma di sogno – l’aveva fatta balenare un paio di giorni fa Riccardo Orioles su fb: e se confiscassero i giornali di Ciancio, quanto sarebbe bello che a gestirli fossimo noi dei Siciliani e del movimento antimafia? Del resto, recentemente un bene del boss Aldo Ercolano – braccio destro di Nitto Santapaola, nonché killer di Giuseppe Fava – è stato assegnato alle associazioni antimafia di Catania (Il giardino di Scidà), quindi perché – ha spiegato il buon Orioles – lo stesso destino non può toccare alle redazioni di Ciancio, attualmente sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa? L’editore, fino a sentenza passata in giudicato, è un cittadino innocente, ma siccome si tratta di un sogno, perché proibire ad Orioles di coltivare dei desideri?

In realtà, con quel post Riccardo ha voluto dare un’anticipazione del terremoto che in viale Odorico da Pordenone – quartier generale di Ciancio – si sarebbe verificato oggi. E che terremoto! Un sequestro con confisca di beni per 150 milioni, compresi il quotidiano La Sicilia e le emittenti  Antenna Sicilia e Telecolor. Un impero. Servito nel corso di questi decenni a condizionare gli orientamenti politici dell’opinione pubblica (non solo catanese, poiché per tanti anni La Sicilia ha avuto il predominio sulle coscienze di chi vive in provincia di di Siracusa e di Ragusa), a condizionare gli equilibri e le decisioni da prendere nelle stanze del potere, a minimizzare o addirittura a depistare l’opinione pubblica su certi fatti di mafia (gli esempi non mancano), a fare soldi a palate, il fine con il quale, in fin dei conti, l’impero di Ciancio è stato gestito.

Come dimenticare certe posizioni assunte su Santapaola, quando il super boss catanese fu accusato di essere stato uno dei killer del generale dalla Chiesa e La Sicilia – contrariamente agli altri giornali italiani – diede la notizia con due giorni di ritardo?

Come dimenticare quando il pentito Maurizio Avola fece il nome di Santapaola come mandante del delitto del giornalista Pippo Fava, e sempre La Sicilia – secondo i magistrati della Procura – cercarono di screditare il collaboratore ?

Come dimenticare quando morì Beppe Alfano, corrispondente de La Sicilia da Barcellona Pozzo di Gotto, e gli inni alla memoria intonati su quel quotidiano e i tentativi di delegittimazione portati avanti sul quotidiano del pomeriggio dello stesso gruppo, L’Espresso Sera, dove in prima pagina – nelle stesse ore in cui si celebravano i funerali – campeggiava un titolone dal seguente tenore: “E se ad ucciderlo non fosse stata la mafia?”, con una serie di pesanti illazioni di natura personale che in determinati ambienti cominciarono a circolare a cadavere ancora caldo. Tempo dopo Sonia Alfano dichiarerà ai magistrati che il padre era stato ammazzato perché aveva scoperto il nascondiglio barcellonese dove Santapaola (ancora lui!) si nascondeva durante la latitanza.

Come dimenticare il necrologio censurato alla famiglia del commissario di Polizia Beppe Montana nel trigesimo della sua uccisione, sol perché fra le righe c’era una parola che non doveva essere pronunciata, “Mafia”, anche se la matrice del delitto era chiara fin dall’inizio?

Come dimenticare la “correzione” di certi pezzi di cronaca dopo la visita in redazione di determinati personaggi di spicco della criminalità organizzata?

Come dimenticare le memorabili decisioni del Consiglio comunale di Catania che in una notte trasformavano determinati terreni agricoli in aree per i centri commerciali?

Come dimenticare le telefonate del sindaco del “rinnovamento” per rassicurare l’editore che i suoi consiglieri avevano votato la cementificazione del litorale della Plaja?

Come dimenticare le censure, non solo delle parole di Claudio Fava, ma perfino del volto, con tanto di taglio operato sulle foto?

Come dimenticare le visite di ministri, sottosegretari, presidenti di Regione in viale Odorico da Pordenone per ossequiare il vero padrone della città?

Come dimenticare il patto con i più grandi editori d’Italia per non fare aprire le redazioni dei loro giornali a Catania e come dimenticare che addirittura La Repubblica – pur essendo stampata negli stabilimenti di Ciancio – sia a Catania, sia a Siracusa che a Ragusa, per decenni è uscita priva delle pagine siciliane perché si doveva mantenere il monopolio?

Come dimenticare il licenziamento di Nino Milazzo, che per amore della sua Terra rinunciò ad una brillante carriera al Corriere della Sera (dove era vice direttore) per dirigere La Sicilia, nella quale si era illuso di scrivere tutta la verità sul sistema di potere della città?

Come dimenticare l’espulsione “graduale” di certi giornalisti di scomodi di altre testate che si erano messi in testa di raccontare certe operazioni che non andavano raccontate?

Come dimenticare l’epurazione dei cronisti di Telecolor che non volevano fare altro che il loro dovere e che sono stati costretti a restare disoccupati o ad emigrare altrove?

Queste ed altre situazioni simili a quelle che si vivevano in Polonia ai tempi del comunismo non si possono dimenticare, e noi non le dimenticheremo, malgrado le tante amnesie e tanti tentativi di isolamento di certa gente che in questi decenni si è prestata al gioco sporco.

Luciano Mirone