Tunisia, mercato di Hammamet, sera. Un’orda di turisti prende d’assalto le bancarelle dove si vende di tutto, dalle spezie ai vestiti, dagli oggetti alle pietanze locali. Un tizio all’angolo della strada fuma il narghilè, altri discutono animatamente, un filo sottile di vento marino stempera il caldo afoso della giornata, tutt’intorno un insieme di case bianche e basse, poco più in là il mare. Al di là delle bancarelle le facce olivastre e povere degli africani, al di qua quelle bianche e opulente degli occidentali.

La gente circola diligentemente lungo il percorso e io mi distacco dal resto del gruppo perché, senza conoscere lingue straniere, amo andare alla ricerca dell’indefinito che mi faccia andare oltre lo stereotipo dei depliant turistici e dei pregiudizi, insomma amo cercare qualche indizio che mi faccia penetrare nello spirito di un popolo: il padre che proibisce alla figlia di uscire, il carretto trasportato dall’asino, il tizio accovacciato sul gradino del bar che si netta le unghie dei piedi.

Mentre mi perdo in queste immagini che ricordano la Sicilia di un tempo, succede qualcosa che sconvolgerà il “caos calmo” di questo immenso suk all’aperto. Una bellissima turista straniera – svedese, norvegese, brasiliana, chissà? – fende l’aria di questa piacevolissima serata, i capelli biondi accarezzati dalla brezza, le gambe lunghe modellate dai jeans, il passo lento e sicuro, i seni che si intravedono dalla camicetta.

A girarsi per guardarla siamo soltanto noi: i mercanti tunisini e il sottoscritto, come a siglare una spontanea e tacita complicità che non si sta si sta attuando attraverso le parole, ma il lampo dei nostri occhi, che simultaneamente si incrociano, mentre i turisti continuano ad aggirarsi indifferenti per le bancarelle alla ricerca di qualcosa da comprare. È un lampo che “parla”: di poesia, di terre martoriate, di popoli antichi, di nostalgie incontaminate, di desideri ancestrali. 

Improvvisamente la mia bocca si collega coi sensi e pronuncia due parole che sono l’espressione autentica di quello che sento. Non in italiano, ma nella mia lingua madre, il siciliano, unica terminologia che all’estero, certamente, nessuno comprenderà: Chi-fimminuna!

Non è così. È come se gli africani non aspettassero che quell’input per completare l’intesa. È come se quella parola onomatopeica, quel suono che indica la sensualità, fosse la chiave per accomunare due popoli in un unico concetto di bellezza, di profumi, di capelli, di rossetti.

Ecco allora che in pochi secondi, in quella porzione di mercato in cui sono immerso, comincia ad echeggiare questa brevissima e incredibile frase, Chi-fimminuna! Prima uno, poi l’altro dalla bancarella accanto, Chi-fimminuna! E poi l’altro, Chi-fimminuna!, e poi un coro, Chi-fimminuna!

Improvvisamente i bancarellari all’unisono si staccano dai loro bazar e si dirigono verso di me, mi circondano in una specie di rito dionisiaco fatto di risate e di festa e pronunciano ancora, chi fimminuna, in mezzo a una folla che loro hanno idealizzato attraverso la tv e il commercio (florido in questo mercato), ma che continua a mostrarsi indifferente.

Hanno trovato un occidentale che è uno di loro, uno “evoluto”col quale condividere una complicità che si perde nella notte dei tempie che diventa allegria e poi euforia e poi amicizia. C’è chi mi offre una stecca di torrone, chi una bevanda tipica, chi un souvenir, chi un foulard. Ciao amigo. Ci salutiamo per sempre con un sorriso.

Nella foto: uno scorcio di Hammamet, in Tunisia

Luciano Mirone