È proprio vero che l’attesa del Sabato è ben diversa dalla festa della Domenica, con i suoi riti, i suoi tempi, i suoi volti. La realtà di presentare il tuo volume al Salone del Libro di Torino è ben diversa dall’attesa di una vigilia carica dell’ansia di non farcela, della paura di non essere adeguato, della gratificazione di recarti comunque (con i tuoi mezzi modesti, ma con la passione e l’entusiasmo di raccontare le tue storie) da un piccolo paese della Sicilia fino al centro della letteratura internazionale che per cinque giorni ha tenuto banco nei giornali e nei telegiornali.

È la differenza fra l’essere e il dover essere, fra il fanciullino di Pascoli e l’ermetismo di Baudelaire, fra la Lecco di Renzo e la Milano dell’assalto ai forni.

Ecco allora che la sindrome di “Totò e Peppino” e del loro mitico viaggio da Napoli a Milano si dissolve man mano che prendi contezza della realtà, sempre diversa da come la immaginiamo, più semplice, più facile, più divertente e anche più imprevedibile.

Il segnale che Torino sia coinvolta pienamente in questa manifestazione ce l’hai quando vedi ad ogni angolo di strada quei bellissimi manifesti colorati che pubblicizzano la kermesse oppure quando entri in una stazione della metro con centinaia di persone accalcate sul convoglio diretto verso le fermate Lingotto o Italia 61, quelle più agevoli per giungere al Salone.

Scendi dal treno e ti ritrovi tantissima gente disposta disciplinatamente in un chilometro di fila ad attendere di entrare in questo immenso hangar situato nel cuore della capitale dell’industria italiana, oggi riconvertito a cuore pulsante della cultura. La pista ciclabile e la pista per i pedoni, le piante autoctone e l’acciaio, il design dell’era post industriale e le facce sorridenti di tanti bambini, sono i primi elementi che ti colpiscono non appena cominci a camminare lungo il viale.

È proprio in questo viale che la “sindrome” scompare. Il biglietto come autore di un libro da presentare e l’accredito come giornalista funzionano. Per cosa? Per eludere la fila, naturalmente, vera spina nel fianco di un siciliano che rinuncerebbe a tutto pur di evitare ore ed ore di martirio in piedi. Ma dopo saranno cavoli, come vedremo.

Arrivi all’ingresso mostrando con orgoglio il telefonino alle gentilissime hostess (oddio-e-se-mi-dicono-che-non-funziona?) che scansionano l’apparecchio con quello strumento dotato di luce verde che ti rilascia il lasciapassare verso l’ignoto. Quando dicono si-accomodi, tiro un sospiro di sollievo e varco la soglia dell’ignoto.

L’ignoto. Un Paese dei balocchi del sapere, una galleria dai colori più svariati, una umanità bella e variegata, un caos piacevole da vedere e da vivere. L’ebbrezza diventa allegria e l’allegria esaltazione. Mandi messaggi e fai qualche telefonata per raccontare le mirabilie che stai vivendo, cammini a passo lento, poi veloce, poi ti fermi, ti ubriachi di aria, ricominci a camminare mentre costeggi lo stand dei colossi editoriali, Mondadori, Feltrinelli, Einaudi, quello della Rai, della Protezione civile, della Polizia, delle case editrici medie e piccole, coi loro libri ben curati, raffinati, leggeri e impegnati, impareggiabili narratori di storie, di luoghi, di scandali e di bellezze. Incontri i grandi della letteratura e dalla saggistica italiana e straniera: Salman Rushdie, Roberto Saviano,  Carlo Lucarelli, Fedez, Carofiglio. Assisti a qualche minuto di presentazione di altri libri,  Ma Giovanni Impastato che racconta la storia di Peppino non te la vuoi perdere. In giro si avverte il fragore delle contestazioni giovanili: dalla questione palestinese alla guerra in Ucraina. Del resto, siamo nell’epicentro della cultura: se non si contesta qui, dove si contesta?    

Ti imbatti negli stand della Calabria (questo riservato non solo alla presentazione di buoni libri, ma anche a qualche passerella di politici che parlano delle “magnificenze” del Ponte sullo Stretto), della Campania, della Sicilia, dell’Emilia Romagna, del Trentino Alto Adige, del Piemonte, del Friuli Venezia Giulia e delle altre regioni italiane.

E però il biglietto e l’accredito non valgono quando senti l’esigenza di andare in bagno o di mangiare qualcosa. In queste occasioni capisci come gli umani siano l’entità più adattabile fra gli esseri viventi: rinunci alla pipì e al pranzo in attesa di… tempi migliori. ma i tempi migliori non arrivano, nel senso che il deflusso, col passare delle ore, diventa  un afflusso pazzesco, soprattutto di ragazzi, che mangiano stando seduti per terra dopo altro interminabile tempo trascorso davanti al bar o alla toilette.

Produco pensieri in libertà su come risolvere questo problema, specie in un luogo prestigioso come questo. Ma a prescindere dai pensieri soggettivi, di oggettivo in questo contesto internazionale, c’è che bisogna risolvere, in futuro, un problema serio come questo. In serata riesco ad andare in bagno: struttura troppo piccola per una manifestazione così grossa.

Poi ti addentri in un bosco. Proprio così. Hanno creato l’ecosistema ideale all’interno dell’hangar ed hanno messo alberi di qualsiasi specie per ricreare l’habitat nel quale presentare i libri sull’ambiente e sul cambiamento climatico. Una piccola foresta fatta di vialetti in terra battuta, di palizzate e di sostegni, con un piccolo anfiteatro (ovviamente tutto in legno) frequentato soprattutto dai bambini.

Già, i bambini. Sono fra i protagonisti assoluti di questa edizione del Salone (accompagnati dagli insegnanti), assieme ai ragazzi provenienti da ogni parte della città e delle varie regioni italiane. Li vedi con almeno un libro sotto il braccio acquistato da poco. Partecipano alle presentazioni nel bosco, intervengono, ridono e vanno via soddisfatti.  

In serata presento il libro. La stanchezza è palpabile. La felicità pure.

Luciano Mirone