È morto Michele. Ed io oggi voglio dedicargli un articolo. Perché Michele non era uno come tanti, viveva nel mondo dei suoni, dei colori e chissà di cos’altro: molti lo prendevano in giro, ed io gli volevo bene, non solo io.

Michele aveva compiuto sessant’anni ed era un uomo triste, solo e trascurato, il lontano ricordo del bambino un po’ strano che conobbi tanti anni fa, quando, per dirla con Turi Vasile, eravamo felici e non lo sapevamo, quando il mio era un paese felice e non lo sapeva.

Mi sembra di vederlo, quando, con i pantaloni corti (eravamo negli anni Sessanta), andava al cinema Eden di Belpasso – quello che mio nonno, una decina d’anni prima, aveva costruito al ritorno dall’Argentina e che zio Gianni aveva continuato a gestire dopo la sua morte –, si sedeva su una poltroncina di legno e restava incantato di fronte a Clint Eastwood (l’eroe che noi bambini chiamavamo “u forti”) che faceva piazza pulita dei cattivi, o degli antichi romani che andavano alla conquista del mondo.  

Michele sgranava gli occhi e rideva, piangeva, si incazzava e spronava “u forti” a sparare per primo, sennò quello appostato dietro al saloon lo avrebbe accoppato. E quando “u forti” vinceva, lui rideva e batteva le mani.

Quando finiva il film, restava per il prossimo spettacolo e poi per il prossimo, perché Michele amava stare al cinema fino a mezzanotte e addormentarsi serenamente assieme ai suoi eroi, e quando don Antonino lo svegliava, tornava a casa con quei suoni, quei colori e quelle storie. Per tornare l’indomani a rivedere le stesse scene.

Il vero protagonista del nuovo-cinema-paradiso che ognuno di noi si porta dentro era lui, irripetibile e meraviglioso romantico che con discrezione, ogni giorno, entrava alle tre del pomeriggio e usciva a mezzanotte.

Anni felici per lui e per quel paese della Sicilia “babba” che viveva nell’ingenuità e nell’allegria. Poi accadde qualcosa di sinistro. Lui fu fra i primi a percepirlo. Era arrivato il tempo degli “sperti”, c’era il Malpassoto e c’erano i Comitati d’affari e tutti dovevano inchinarsi a loro. Tutti, meno Michele.

Eravamo tra la fine del 1985 e il 1986. I cinema italiani – dopo l’avvento delle TV commerciali – erano entrati in una crisi drammatica. Adesso un film potevi vederlo stando comodamente seduto nella poltrona di casa, senza pagare il biglietto. Il colpo di grazia fu dato dall’incendio del cinema Statuto di Torino, 64 vittime: da quel momento ristrutturazione di tutte le sale con spese milionarie per mettersi a norma. Non tutti potevano permetterselo.

Dopo una serie di viaggi al comune per indurre gli amministratori del tempo ad acquistare l’Eden per farne un centro culturale destinato soprattutto ai giovani (specie in quel momento di modelli negativi che affioravano dalla zona melmosa della società), la famiglia fu costretta a vendere il cinema. Parlare di cultura agli amministratori del tempo era come parlare di spirito santo al diavolo. Una risata oscena, ma-chissu-cchi-voli, e ti mandavano a casa per continuare a praticare lo sport preferito: la demolizione del centro storico, decine di manufatti antichi rasi al suolo per portare avanti gli sporchi interessi di pochi. 

Figuriamoci se potevano preservare il cinema, figuriamoci se a preservarlo doveva essere l’assessore coinvolto nella progettazione. Siamo seri! Quale progettazione? Quella di abbatterlo per favorire l’ennesima colata di cemento. In quei giorni in cui le ruspe demolivano il cinema (mentre il Caudullo, l’altra sala presenta in paese, fatiscente, cadeva a pezzi), nessuno disse niente, né una parola di indignazione, né di nostalgia, specie se ormai Belpasso era rimasto senza un cinema.

Ma si stava andando incontro a un periodo di “progresso”. Chissenefrega se un cinema viene cancellato dalla faccia della terra assieme ai sogni di migliaia di persone?

Qualcuno disse che un’anima nobile, allora, provò un dolore indicibile: Michele. Ma lui non poteva esprimerlo, non si era smaliziato abbastanza, non si era adeguato ai tempi, non era diventato furbo, era rimasto il bambino candido di prima. E piangeva. Lui, gigante irraggiungibile, in mezzo ai tanti nani che in questi decenni hanno tollerato qualsiasi scempio urbanistico e morale.   

Da allora Michele non è stato più lo stesso. Se la causa sia da attribuire alla scomparsa del cinema non so. Una cosa però la so: dopo quel crudele assassinio di sogni, per anni non sono riuscito ad elaborare il lutto. Un dolore fortissimo mi ha pervaso per molto tempo, come succede quando ti muore una persona cara. Solo chi sa  sognare può capire.

Ecco perché quando vedevo Michele triste, rabbuiato e solo, pensavo a come tutto fosse cambiato. Ecco perché io mi sento Michele.

Nella foto: il film “Nuovo cinema paradiso” di Giuseppe Tornatore

Luciano Mirone