Se n’è andato un Uomo giusto, se n’è andato Gino Manca, padre di Attilio, l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) “suicidato” dalla mafia nella sua casa di Viterbo a trentaquattro anni (2004) per essere stato il medico che, in gran segreto (con la regia, secondo i pentiti, di Cosa nostra barcellonese collegata con quella corleonese, dei servizi segreti deviati e della massoneria deviata), aveva diagnosticato e curato il cancro alla prostata del boss della Trattativa Stato-mafia, Bernardo Provenzano, allora latitante, che all’epoca – pur nascondendosi in Sicilia – girava mezza Europa (l’intervento fu eseguito in una clinica privata di Marsiglia, forse alla presenza di Attilio, ma su questo, fra gli altri, si è messo un atto un depistaggio colossale) sotto il falso nome di Gaspare Troia, protetto per quarant’anni dallo Stato, ma molto vulnerabile nei confronti di chi, come Attilio (probabilmente ignaro delle vere generalità del boss), avrebbe potuto svelarne il volto e la pericolosità. E chissà se una prospettiva del genere – data l’urgenza di farlo fuori – non fosse imminente o addirittura immanente.  

Gino era una persona mite, delicata e come tutti gli esseri particolarmente sensibili, molto ingenua. Di poche parole, amava ascoltare, amava soprattutto sorridere.

Io che ho avuto l’onore di conoscerlo e di frequentarlo per anni per una battaglia che a un certo punto della mia vita ho deciso di condividere con lui, con la moglie Angela (altra persona meravigliosa) e col fratello Gianluca per stabilire una verità che da quel maledetto febbraio del 2004 è stata negata a quella famiglia e a questo Paese, oggi faccio fatica a scrivere.

Non è facile parlare di un grande amico. Non è facile anestetizzare il dolore per raccontare Gino. E per raccontare Gino devi raccontare Angela, la compagna della sua vita con la quale c’è sempre stato un legame indissolubile.

Attilio Manca con i genitori Gino e Angela. Sopra: padre e figlio in un momento gioioso della loro vita

A un passo dell’una corrispondeva un passo dell’altro: al cimitero, al ristorante, alla conferenza, a casa. Dopo la morte di Attilio il legame si era rafforzato: non solo affetto, non solo amore, ma per quasi vent’anni una disperata ma determinata ricerca di verità e di giustizia che uno Stato troppo compromesso si è sempre rifiutato di stabilire (a cominciare dalle Procure di Viterbo e di Roma, passando per la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosi Bindi) infangando Attilio come “vittima di una overdose di eroina che lui stesso si era inoculato”. Addirittura- secondo quanto emerge dagli atti della Commissione antimafia – i magistrati di Viterbo si sarebbero prodigati, tramite avvocati, a contattare “l’imputata chiave” per testimoniare contro Attilio, malgrado la volontà diversa della donna.    

Per la giustizia ufficiale la storia si ferma banalmente a un fatto di droga, malgrado i pentiti che raccontano univocamente un’altra storia, malgrado i libri, gli articoli, una famiglia e un’opinione pubblica che invocano a gran voce il ristabilimento dei fatti. Niente da fare.

Troppo grosso questo affaire per essere svelato a un Paese che, per dirla con Buscetta, non è pronto per certe cose e, aggiungiamo noi, forse non lo sarà mai o forse lo sarà quando saremo tutti morti. Abbiamo dovuto aspettare una nuova  Commissione antimafia – quella presieduta da Nicola Morra – per sapere quello che Gino, Angela e Gianluca dicono da sempre.

Una verità “politica” (o meglio: di una “parte” politica) e non giudiziaria, purtroppo: quest’ultima (ubbidendo ad altre logiche) si è blindata, come è successo con i casi di Emanuela Orlandi, di Pasolini, di via D’Amelio, di tutte le stragi politico-masso-mafiose che dall’immediato dopoguerra hanno insanguinato l’Italia.

Quando una volta chiesi a Gino: secondo te, da uno a cento, quanta verità è stata scoperta sulla morte di Attilio?, lui rispose “uno, e forse manco quello”.

Una verità cercata sulla macchina quando, appena conosciuti, dopo un convegno su Attilio, volle salire con me: aveva intuito la mia indignazione e la mia insopprimibile voglia di venirne a capo, che sarebbero diventati un libro, centinaia di articoli e di interventi pubblici.

Una verità cercata al suo compleanno, quando in una afosa estate come questa, partii improvvisamente per festeggiare.  

Una verità cercata al ristorante a Roma, seduti vicini (succedeva spesso), dopo una manifestazione su Attilio.

Una verità cercata a Corleone subito dopo l’uscita del libro, quando in un momento di particolare intensità, partì un abbraccio bellissimo fra me e Angela e fra me e lui.

Una verità cercata in una via della Capitale, dove c’era il b&b che ci ospitava: si trovava nello stesso quartiere nel quale aveva vissuto Attilio negli anni dell’Università. Quella mattina facemmo una passeggiata. Gino tendeva ad avvicinarsi all’ex abitazione del figlio: voleva trovare la sua anima. Fu un momento molto intenso, in cui mi confidò la sua tristezza ma anche i momenti belli vissuti con Attilio: “Con Angela venivamo spesso a trovarlo a Roma. Ogni volta era una festa”.

Una verità cercata a casa, dove trascorrevamo delle ore a parlare davanti al camino, col cagnolino in braccio.

Masticava amaro Gino, assieme ad Angela e a Gianluca, ma manteneva sempre la sua compostezza. Non bruciava solo la ferita della morte. Bruciava atrocemente la piaga che i “poteri forti” e gli ex amici di Barcellona avevano inferto ad Attilio dopo averlo pugnalato con quell’accusa di essere un drogato.

Fino a quando l’indagine parlava di morte per droga, tutti ad affrettarsi a smentire: “Attilio non ha mai fatto uso di stupefacenti”. Ma quando i genitori – dopo la soffiata di un soggetto appartenente allo stesso ambiente – cominciarono ad indagare parlando di omicidio di mafia, improvvisamente le versioni cambiarono: “Attilio? Un drogato”. Addirittura: “Si faceva di eroina assieme a me”.

Un’infamia. Per giustificare una morte per overdose che soltanto un’autopsia piena di “buchi neri” (di cui questo giornale fece dieci puntate) ha accertato. Peccato che il consulente che intervistai, il professor Vincenzo Milana, valoroso medico legale dell’Università di Catania (che anni prima mi aveva fatto scoprire un altro omicidio mascherato da “suicidio”: quello del giornalista Cosimo Cristina avvenuto a Termini Imerese nel 1960), quando vide le foto del cadavere di Attilio Manca mi disse: “Questa è una morte violenta. I decessi per overdose presentano dinamiche del tutto differenti”. E dopo aver studiato attentamente le carte dell’autopsia e del sopralluogo della polizia aggiunse: “Ci sono gli elementi per invalidare l’indagine”.

L’ex procuratore di Viterbo Alberto Pazienti e l’ex pm Renzo Petroselli, titolari delle indagini sulla morte di Attilio Manca

Non fu invalidato nulla, anzi, tutta l’inchiesta venne condizionata da quello stranissimo esame autoptico. Viterbo e Roma continuarono a sostenere la tesi della tossicodipendenza, perché in gioventù, durante una gita scolastica in Spagna, Attilio era stato trovato in possesso nientemeno che di qualche grammo di marijuana.

Troppe ingiustizie attorno a questo ragazzone di trentaquattro anni che amava la vita e la sua professione. Basta rileggere il dispaccio dell’Ansa dell’inizio del Duemila: Attilio Manca è il primo urologo italiano ad avere eseguito l’operazione di cancro alla prostata in laparoscopia.

Bisognava vederlo Gino quanto era orgoglioso del suo ragazzo, come gli brillavano di occhi quando si parlava del suo rendimento a scuola e all’Università (gli ex compagni del liceo “Valli” di Barcellona dicevano: “Noi per fare un compito ci mettevamo quattro ore, ad Attilio bastavano dieci minuti”), e della specializzazione presa a Parigi, dove viveva in un bugigattolo dei sobborghi.

Vogliamo ricordarlo così Gino: solare, ironico e sorridente, un simbolo della migliore  borghesia siciliana. Grazie Gino per i meravigliosi momenti che mi hai e ci hai regalato. Grazie davvero.

Luciano Mirone