Anni Cinquanta in un paese siciliano. Funerali solenni per la morte dell’ex sindaco in odore di mafia. Un mare di gente, negozi listati a lutto, saracinesche abbassate. In prima fila le massime autorità della provincia e il prefetto, il nuovo sindaco fasciato nel suo tricolore e tutti i primi cittadini del circondario e anche di fuori provincia. Un poco più defilato il Grande Maestro partito all’alba per assistere alla sontuosa celebrazione. Ad officiare l’omelia l’arcivescovo di Palermo con le sue parole sagge e rassicuranti.

Il morto era un grande benefattore, nella sua cava aveva dato lavoro a tanti padri di famiglia, riusciva perfino a dirimere le controversie matrimoniali: sempre col sorriso sulle labbra, con la buona parola e la battuta pronta per tutti. Era davvero un uomo simpatico e generoso.

Eppure si era avvalso di Cosa nostra per diventare uno degli uomini più potenti della Sicilia. Era un ricco imprenditore del settore agricolo. A tutti raccontava che si era fatto da solo e tutti, quando lo sentivano parlare, strabuzzavano gli occhi, stavano in religioso silenzio e lo osannavano.

I magistrati non la pensavano allo stesso modo. Nei loro rapporti (puntualmente archiviati) avevano scritto che, fin dall’inizio della sua carriera, l’ex sindaco aveva intessuto i suoi legami con Cosa nostra grazie al suo fedelissimo factotum che lo aveva introdotto negli ambienti “giusti” e quando c’era stato bisogno, era intervenuto con i suoi uomini dotati di efficientissime lupare per indurre – sempre con le “buone” – i piccoli proprietari della zona a cedere i loro terreni all’uomo ricco e potente.

Il quale non era stato mai sfiorato da una condanna o da un accertamento bancario. Avevano arrestato, processato e condannato il suo fedelissimo, lui no, lui era rimasto con la fedina penale sempre pulita. Solo un ufficiale dei carabinieri (un tipo tosto, molto somigliante al capitano Bellodi del Giorno della civetta) si era permesso di fare un rapporto contro di lui: un mese dopo trasferimento a Brescia e promozione a maggiore.

Per immortalare quei sontuosi funerali avevano chiamato il migliore fotografo della Sicilia, il quale qualche ora prima, mentre l’ex sindaco era dentro la bara ancora scoperta, con quei fiori ai suoi piedi che cominciavano a puzzare di marcio e la gente che faceva la fila per baciarlo, si era piazzato in quella bellissima casa in attesa del “momento giusto” per scattare delle immagini che sarebbero rimaste a imperituro ricordo.

Il popolo lo adorava e non riusciva a comprendere perché un’altra parte di esso lo detestava. “Sempre quei comunisti invidiosi e pronti a odiare chi si è fatto da sé”. Nel frattempo la mafia assassinava sindacalisti, capilega, segretari delle Camere del lavoro e politici di sinistra che avevano avuto l’ardire di sfidare le leggi non scritte di Cosa nostra. Poco tempo prima aveva ucciso perfino un bambino di dieci anni che era stato testimone oculare del delitto di un grande sindacalista. Il boss del paese, che era pure medico condotto, lo aveva avvelenato con una iniezione al cianuro per evitare che il bimbo parlasse col capitano dei carabinieri che già era sulle tracce degli assassini e dei mandanti.

In chiesa si espandeva l’odore dell’incenso e tutti erano commossi. “Mi raccomando, quella licenza edilizia, al più presto”. “Non dubiti don Vincenzo, dopodomani sarà tutto pronto”.

La piazza era gremita. Tante coppole si levarono al passaggio del feretro trasportato da quattro cavalli scuri. Alla fine si levò un lunghissimo applauso.

Diversi anni dopo Leonardo Sciascia lo avrebbe previsto: “La linea della palma si sta spostando dalla Sicilia al Nord”. Lo scrittore di Racalmuto aveva visto giusto. Molto tempo dopo avremmo assistito alla stessa scena, con personaggi diversi, ma stavolta in una metropoli del civilissimo Nord.

La “linea” è avanzata sempre di più, anno dopo anno. E non è la persona dentro la bara, è quella moltitudine di individui che non sanno o che fanno finta di non sapere.

La foto è dell’Istituto Luce

Luciano Mirone