Aveva un caratteraccio, ma se lo poteva permettere: era un intellettuale. E come tutti gli intellettuali veri, Nando Sambataro (di professione avvocato, ma con la tempra del letterato) ti spiattellava in faccia tutto quello che pensava. Sempre. Magari con le sue amate citazioni letterarie, ma senza diplomazia, senza infingimenti, senza ipocrisia.

Nelle nostre interminabili chiacchierate mi elogiava poco e mi criticava spesso (era fatto così e lo faceva bonariamente con chi voleva bene), ma quando presentavo i miei libri era sempre presente, sornione e schivo (malgrado il suo ego), con l’orgoglio di chi ha sempre creduto in te, al punto da conservare perfino certi articoli fra i volumi della libreria dello studio legale.

Un atteggiamento assunto perfino col padre, il professore Giuseppe Sambataro, grande studioso di Storia Patria (morto nel 1985), col quale Nando aveva delle frequentissime polemiche: gli rimproverava di essersi fossilizzato a Belpasso – malgrado le sue straordinarie doti letterarie – per quell’immenso amore per il suo paese, lo esortava a mandare al diavolo quei traditori che in politica lo avevano accoltellato più volte, a dispetto di quel triennio di sindacatura (all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso) fra i più prestigiosi della storia di Belpasso: basti ricordare le basi gettate per la zona industriale di Piano Tavola e le straordinarie manifestazioni culturali che calamitarono l’attenzione della stampa nazionale.

Niente da fare. Il “professore di Sicilia” (come l’avvocato Giacomo Barletta lo definì in un memorabile articolo apparso su La Sicilia) non riuscì mai a tagliare il cordone ombelicale che lo legava al “paese dell’anima”, anche se a Catania, dove era residente (e ancor prima a Cefalù e a Matera), era considerato un’istituzione per quel modo affascinante di insegnare lettere nei licei classici.

Nando invece era orgoglioso di dire di essere nato a Cefalù, ma di risiedere a Catania, di essersi laureato a Catania, di vivere a Catania, di considerare Catania la sua vera Patria. Vero. E Belpasso? Il punto dolens era proprio questo: Belpasso. Dove Nando aveva vissuto stabilmente l’infanzia e l’adolescenza.

La verità è che per entrambi, il paese, era una categoria dello spirito. Ma mentre per Giuseppe l’amore era prorompente e si alternava con l’odio, per Nando l’amore era condizionato dal dolore fortissimo che Belpasso aveva inflitto al padre e quindi dalla reazione che tutto questo comportava.

Ecco allora le frasi ricorrenti: sì- a-Belpasso-vado-ogni-tanto,-giusto-perché-ho-una-casa-in-campagna-e-i-cani-da-accudire. In realtà la casa in campagna e i cani erano un pretesto. Nando era quasi ogni giorno a Belpasso, immerso pienamente in quel sentimento e in quel risentimento ereditati dal padre, di cui non riusciva assolutamente a liberarsi.

Si vedeva con qualche amico, ma gli piaceva anche stare solo: in quei momenti cercava suo padre, di cui era profondamente innamorato. Non c’era piazza, strada, pietra o contrada che non  gli parlassero di lui e dei suoi personaggi antichi: Minicu Chiantedda, Pasquale Carciotto Causicarta, Santo Proietto detto Santu ‘u signu, Pricipitarasuli, Luciano Caudullo detto Lucianu ‘u pueta e tanti altri soggetti romantici della Belpasso di inizio Novecento.

Ogni discorso fra Nando e il sottoscritto finiva per scivolare puntualmente sul “professore di Sicilia”, come se il conto aperto dal padre dovesse essere chiuso da lui, come se le lacerazioni interiori dell’uno fossero state riversate interamente sull’altro, che sentiva di doverle risolvere.

La verità è che Belpasso – come diceva il professore – è davvero il “paese del vento, del tormento e del tradimento”, che ti avviluppa con la Montagna e Nino Martoglio (di cui Giuseppe aveva realizzato una monumentale opera), gli ulivi di Valcorrente lunghi limati storti e la vasta plaga piena di mandorli e di fichidindia, la storia dei Bufali e la civiltà contadina, i socialisti di De Felice e di Martinez e il cattolicesimo democratico di Sturzo e dello stesso Sambataro, i poeti della strada e le mascarate, ma ti tradisce col primo che  promette prebende e privilegi.

Chi non è di queste parti non può capire. E neppure chi (pur essendoci nato e cresciuto) ci sta solo per accidia o per quieto vivere.

Solo chi questi luoghi li ama davvero e li vuole disperatamente cambiare può comprendere la metafora del vento, del tormento e del tradimento.

Il vento, spiegava Nando, è il trasformismo di certa politica e di certa gente. Il tormento lo stato d’animo degli sparuti don Chisciotte che lottano contro i mulini a vento. Il tradimento l’azione prevalente che uccide passato, presente e futuro.

Nando era amico di Pippo Fava, tanto da curare negli anni Settanta la regia teatrale de “La violenza” (opera dello scrittore ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984) con la Brigata d’Arte Nino Martoglio di Belpasso, e di un’altra vittima di Cosa nostra: l’avvocato Serafino Famà, con il quale, molti anni fa (con le famiglie al seguito), fece un viaggio pazzesco in Cinquecento fino a Parigi.

Un giorno di diverse estati fa mi chiamò al telefono: “Anche quest’anno ricorderemo Serafino Famà. Abbiamo pensato a te come oratore, assieme al tuo collega Giovanni Tizian e al mio caro amico Goffredo D’Antona (avvocato anche lui)”.  

Poi ci rivedemmo a Belpasso. Tu non hai idea, mi diceva, quanto si sia speso mio padre per il suo paese. Una volta fu ricevuto dall’ex Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi: invece di soffermarsi su altri argomenti, gli parlò di Belpasso. Ti rendi conto?

Ed io immaginavo questo amore di Giuseppe fatto di amarezze, di collere, di illusioni e di disillusioni. Questo amore che lo portò a fare ristrutturare l’antico teatro comunale dal cugino Giambattista Spampinato (allora sindaco di Belpasso) e ad inaugurarlo, all’inizio degli anni Ottanta, con la sua bellissima opera su Martoglio. Questo amore vissuto dal padre che finisce per riversarsi sul figlio, che vive inevitabilmente le stesse sofferenze.

Quando parlavo con Nando, mi piaceva ricordargli una frase che suo padre aveva coniato su Martoglio, ma che in realtà descriveva perfettamente i tumulti interiori del genitore: “Di Martoglio si può dire che non ebbe mai paura della mistificazione politica, della bassezza civile e della miseria morale. E macchie non ebbe se non quella del cuore: grande, affollato d’impulsi, colmo di sogni, inquieto, ardente, sempre insoddisfatto, un cuore da siciliano”.

In quelle discussioni coglievo quella insopprimibile voglia di tirare, una volta per tutte, la “corda pazza” contro i disonesti che hanno spento il sogno di una Sicilia migliore, contrapposta alla triste consapevolezza di dovere obbligatoriamente tirare quella “civile”, in una Terra che non vede, non sente e che non vuol capire, come canta Rosa Balistreri.

Ma in questa Terra c’è chi fortunatamente parla, capisce e non dimentica, specie quando se ne va un intellettuale vero. Trentotto anni fa Giuseppe. Adesso Nando. 

Nella foto: Nando Sambataro (al centro) con Serafino Famà (a destra) e Carmelo Spampinato (a sinistra) molti anni fa

Luciano Mirone