Un quadro terrificante, al di là di ogni immaginazione. Per questo la Commissione parlamentare antimafia “ritiene che la morte di Attilio Manca sia imputabile ad un omicidio di mafia e che l’associazione mafiosa che ne ha preso parte (non è chiaro se nel ruolo di mandante o organizzatrice o esecutrice) sia da individuarsi in quella facente capo alla famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto”.

Ci sono voluti diciannove lunghissimi anni per affermare quello che i familiari del medico barcellonese, pochissimi giornalisti e una fetta consistente di società civile sostengono da quel maledetto 12 febbraio 2004, quando il brillante urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), 34 anni, il primo in Italia ad operare il cancro alla prostata in laparoscopia, viene trovato morto sul suo letto dell’appartamento di Viterbo (Attilio da un paio di anni lavora all’ospedale Belcolle) con due siringhe – una in cucina e una nel bagno – e due buchi nel braccio sinistro (uno di questi inverosimilmente nel polso), circostanza che fin dai primi momenti dovrebbe insospettire gli inquirenti, dato che l’urologo è un mancino puro e quindi quei fori si dovrebbero trovare nell’arto opposto.  

La Commissione parlamentare antimafia oggi non ha dubbi. Non è una “inoculazione volontaria di eroina” a causare la morte dell’urologo siciliano (come per anni hanno ripetuto i magistrati di Viterbo, in primis il procuratore Alberto Pazienti e il suo sostituto Renzo Petroselli, in sintonia con quelli romani, a cominciare da Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, ma un delitto di mafia, in cui – in base alle dichiarazioni di diversi pentiti, due fra tutti: Carmelo D’Amico e Giuseppe Setola – il ruolo di Cosa nostra converge con quello dei servizi segreti deviati, nell’ambito dell’operazione di cancro alla prostata alla quale, un anno prima, viene sottoposto a Marsiglia il boss della “trattativa” fra Stato e mafia Bernardo Provenzano.

Il boss pentito Carmelo D’Amico. In alto Attilio Manca fotografato dalla Polizia dopo il decesso

Pagine circostanziate, quelle dell’Antimafia nazionale, che smentiscono clamorosamente la relazione della precedente Commissione presieduta dalla parlamentare del Pd Rosy Bindi, che, pur bollando come “superficiali e contraddittorie” le indagini eseguite dai magistrati di Viterbo e di Roma, ne sposano in toto le conclusioni, parlando di un decesso causato dall’auto inoculazione di droga attraverso una dinamica che – secondo l’ex organo parlamentare – vede un Attilio Manca usare entrambe le mani (malgrado le testimonianze univoche che parlano di “mancinismo puro”), un Attimo Manca “assuntore occasionale di eroina, di cui però è in grado di controllare gli effetti”, un Attilio Manca fanatico della pulizia, il quale, dopo i “buchi fatali” fa sparire il laccio emostatico e il cucchiaio sciogli-eroina, ma fa ritrovare le siringhe con la protezione inserita e si prende la briga di cancellare le impronte digitali dalle stesse.

Una ricostruzione basata sulla totale mancanza di prove, che allora ha indotto la minoranza della stessa Commissione (costituita in gran parte da parlamentari del Movimento 5 Stelle) a stilare una propria relazione per prendere le distanze da quella della maggioranza.

Badiamo bene: quello attuale è soltanto un atto “politico”, non giudiziario (per i magistrati, Attilio Manca è ancora ufficialmente un morto per droga), ma la ricostruzione di Palazzo San Macuto ha il merito di aver confutato (anche dal punto di vista scientifico) la tesi “a senso unico” elaborata dai magistrati laziali.

I quali – con riferimento a quelli viterbesi – non sarebbero quei “cavalieri senza macchia e senza paura” che qualcuno ha ritenuto che fossero.  La Commissione antimafia riporta un articolo dell’Agenzia di stampa Agi a firma del giornalista Paolo Borrometi, che riporta le parole dell’avvocato romano Cesare Placanica, difensore di Monica Mileti, unica imputata nel processo per la morte di Attilio Manca, chiamata a rispondere, secondo l’accusa, della cessione dell’eroina utilizzata dall’urologo per “suicidarsi”.

“L’avvocato – si legge nella relazione – rivelava di aver ricevuto dai magistrati viterbesi il suggerimento di convincere la propria assistita a confessare la cessione dello stupefacente”.

Non è un retroscena da poco. L’episodio, se è vero, spiega che le indagini “per droga” sulla morte di Attilio Manca non sarebbero state contrassegnate da imparzialità, e neanche da “superficialità” (come ingenuamente si è creduto per molto tempo), ma da ragioni che il lettore potrà facilmente intuire. Quel che bisogna chiedersi è se “la Procura di Viterbo” avrebbe agito autonomamente o per conto di entità superiori che potrebbero aver garantito per tutti.

L’ex procuratore di Viterbo Alberto Pazienti e l’ex pm Renzo Petroselli, titolari delle indagini sulla morte di Attilio Manca

“La procura di Viterbo – dice l’avvocato Placanica – mi aveva detto: ‘Ma falla confessare perché noi lo qualifichiamo quinto comma ed il quinto comma si prescrive a breve’. Sennonché io l’ho spiegato alla mia assistita e lei mi ha detto ‘ma io posso confessare una cosa che non ho fatto?’ … Le dico: ‘In teoria la può confessare, perché ottiene un’utilità’. Ma si può portare una a confessare una cosa che non ha fatto? Questa (la Mileti, ndr.) ha pagato di non avere detto una fesseria che metteva una pietra tombale sopra a questa storia, perché nell’attimo in cui lei confessava, la storia finiva. Ora io… questo lo posso dire, ma non posso rivelare discorsi più approfonditi che si fanno fra le parti”.

“Dalla Procura della Repubblica di Viterbo – scrive la Commissione di Palazzo San Macuto – non risultano essere arrivate smentite ufficiali”. Quindi?

Quindi bisogna chiedersi: perché “la Procura di Viterbo” avrebbe fatto pressione su un legale per indurre la propria cliente a confessare una circostanza falsa? Perché gli stessi magistrati accusano per anni l’urologo (ormai deceduto e quindi impossibilitato a difendersi) di essere un tossicodipendente, senza uno straccio di prova? Perché non indagano sulla pista mafiosa suggerita fin dai primi momenti dai familiari di Attilio Manca?

Loro sono convinti di avere “le prove”. Quali? Un’autopsia e un esame tricologico (un test, quest’ultimo, su un capello della vittima per stabilire eventuali assunzioni pregresse).

Scusi il lettore se l’autore di questo articolo parla di sé, ma nel 2016 costui intervista un docente di medicina legale dell’università di Catania, al quale lui stesso, tempo prima, aveva chiesto una consulenza in merito al libro sugli otto giornalisti uccisi in Sicilia, Gli insabbiati. Un professore serio e preparato che sul caso Manca, attraverso una serie di spiegazioni scientifiche pubblicate in dieci puntate, confuta pezzo per pezzo l’esame autoptico effettuato dalla dottoressa Dalila Ranalletta, nel quale il docente trova tali e tante anomalie da dire: “Esistono gli elementi per invalidare l’inchiesta”. Questo per quanto concerne l’autopsia.

L’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone

Per quanto riguarda l’esame tricologico, oggi la Commissione antimafia, avvalendosi di un esperto tossicologo del Sert di Bologna, il prof. Salvatore Giancane, confuta quanto stabilito dal consulente della Procura di Viterbo, il professor Fabio Centini dell’università di Siena: “Ciò che deve rilevarsi e che la Commissione intende sottolineare è che l’accertamento tricologico svolto dal consulente, non solo risulta esulare dagli specifici quesiti posti al medesimo dall’ufficio del pubblico ministero, ma risulta essere stato condotto senza le garanzie e le modalità atte a dare certezza dell’ attendibilità del risultato”.

Una spiegazione, quella di Giancane, molto dettagliata, circostanziata e precisa, che prende le mosse da uno studio americano in cui viene stabilito che “l’overdose è un ottimo modo per uccidere una persona, perché i rilievi in caso di overdose sono assai superficiali e ovviamente ciò dà un grande vantaggio a chi commette il fatto”. 

E allora? Le “granitiche” prove della magistratura viterbese e romana, nonché della Commissione antimafia presieduta dall’onorevole Bindi, si avvalgono soprattutto sulle testimonianze degli “amici” barcellonesi della vittima, che risultano o ex tossicodipendenti oppure collegati – direttamente o indirettamente – con il mondo tremendo della criminalità locale (non dimentichiamo che il boss di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, ritenuto dai magistrati il mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano, è colui che consegna nelle mani di Giovanni Brusca il telecomando – probabilmente costruito in loco – della strage di Capaci che fa a pezzi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani) collegato con certe istituzioni, certa massoneria e certi servizi segreti. Un mondo da scandagliare per intero se si vuol comprendere il contesto nel quale muore Attilio Manca, anche se il decesso si è verificato a Viterbo.

La strage di Capaci (foto Luciano Del Castillo)

È un mondo – secondo la descrizione della Commissione antimafia – in cui emerge un sodalizio fatto di favori, di compromissioni e di violenze che avrebbe offerto a Bernardo Provenzano uno dei migliori urologi d’Italia: il dottor Attilio Manca. Il quale, benché residente da molti anni nel Lazio (prima a Roma per l’università, poi a Viterbo), ha continuato a mantenere i rapporti con gli “amici” barcellonesi delle elementari, delle medie e del liceo, che intanto, dismessa la pelle dei ragazzi scanzonati di un tempo, hanno indossato quella ben più pericolosa della vicinanza o della contiguità a determinati mondi.

“Attilio non era un tossicodipendente”. Questo il coro degli amici barcellonesi subito dopo il decesso. “Attilio era un tossico. Si drogava con noi usando indifferentemente la mano destra e quella sinistra”. Questo lo stesso coro dopo che i genitori dell’urologo cominciano a dire che dietro questo a strano decesso c’è la mafia.

A spiegare certi retroscena di questa vicenda è il pentito Carmelo D’Amico, ritenuto “attendibilissimo” per altri casi, ma non sul caso Manca, per il quale viene costantemente ignorato.

“D’Amico – scrive l’Antimafia – spiegava come Antonino Rotolo (boss detenuto assieme a lui nel carcere milanese di Opera) – gli avesse confidato che Attilio Manca era stato ucciso dai Servizi segreti per coprire la latitanza di Bernardo Provenzano, della cui operazione alla prostata si era «interessato» il medico siciliano”.

Il momento della cattura di Bernardo Provenzano

“Ho già riferito in altri verbali – dice D’Amico – che con il passare del tempo io mi ero guadagnato la piena fiducia di Rotolo Antonino… il quale mi disse espressamente che non era stata Cosa Nostra a rivolgersi al Manca ma erano stati invece i servizi segreti. (…) mi disse espressamente che i servizi segreti, dopo essersi rivolti al Manca per quella operazione, lo avevano  eliminato simulando un omicidio o comunque un’overdose di eroina. Sempre per quello che mi riferì il Rotolo, i servizi segreti, dopo essersi rivolti al Manca per quella operazione, non si fidavano del Manca stesso e per questo lo uccisero”.

“Il motivo per cui in definitiva il Manca fu eliminato – seguita D’Amico – era che costui aveva in qualche modo visto in faccia Provenzano, soggetto quest’ultimo che non era stato più visto in faccia da almeno quarant’anni e dunque per quel motivo Manca morì”.

“Rotolo – prosegue l’ex boss di Barcellona – mi disse che la fonte delle sue conoscenze sull’omicidio di Manca era lo stesso Provenzano. (…) Quando Rotolo mi disse che erano stati i servizi segreti ad eliminare Attilio Manca, voglio specificare che costui mi disse che i  servizi segreti agirono in quel modo perché in quel periodo la latitanza di Provenzano era protetta dagli stessi servizi segreti e dal ROS. Dunque i servizi agirono in quel modo per fare un favore a Provenzano e per proteggerlo”.

“Di questa vicenda, ossia della morte di Attilio Manca – spiega D’Amico –, sono a conoscenza tutti i più importanti collaboratori di giustizia, i quali però, sempre per come mi riferì il Rotolo, hanno deciso di non rilevare nulla dal momento che sono ben consapevoli del fatto che verrebbero altrimenti eliminati o “distrutti”, nel senso che verrebbe attaccata la loro credibilità”.

“Il 13 ottobre 2015 – spiega la Commissione antimafia – , Carmelo D’Amico completava la sua narrazione…, aggiungendo anche alcuni fatti appresi da Salvatore Rugolo, cognato dell’attuale capomafia di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, e figlio dell’ex capomafia barcellonese, Francesco ‘Ciccio’ Rugolo” ucciso negli anni ’80.  

Rosario Cattafi

“D’Amico – scrive Palazzo San Macuto – spiegava come Rugolo avesse accusato Rosario Cattafi di aver avuto un ruolo nella vicenda dell’omicidio dell’urologo Attilio Manca… Poco tempo dopo la morte di Attilio Manca, avvenuta intorno all’anno 2004, incontrai Salvatore Rugolo, fratello di Venerina e cognato di Pippo Gullotti. (…) Rugolo mi disse che ce l’aveva a morte con l’avvocato Saro Cattafi perche’ ‘aveva fatto ammazzare’ Attilio Manca, suo caro amico. In quell’occasione Rugolo mi disse che un soggetto non meglio precisato, un Generale dei Carabinieri, amico del Cattafi, vicino  e collegato agli ambienti della ‘Corda fratres’, aveva chiesto a Cattafi di mettere in contatto Provenzano, che aveva bisogno urgente di cure mediche alla prostata, con l’urologo Attilio Manca, cosa che Cattafi aveva fatto”.

“Rotolo non mi disse – dichiara ancora D’Amico – chi fosse questo soggetto appartenente ai servizi ma io capii che si trattava della stessa persona indicatami dal Rugolo, ossia quel Generale dei Carabinieri che ho prima indicato; sicuramente era un soggetto delle istituzioni e che ad uccidere quel medico erano stati i servizi segreti. In quella circostanza Rotolo mi aggiunse che di quell’omicidio si era occupato, in particolare, un soggetto che egli definì “u calabrisi”; costui, per come mi disse Rotolo, era un militare appartenente ai servizi segreti, effettivamente di origine calabrese, che era bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi. Rotolo Antonino mi fece anche un altro nome coinvolto nell’omicidio di Attilio Manca, in particolare mi parlò del Direttore del SISDE, che egli chiamava ‘U Diretturi”.

Luciano Mirone