L’11 gennaio 1693 (330 anni fa come oggi), Fenicia Moncada veniva distrutta dal terremoto. Non tutti sanno cos’era Fenicia Moncada. Era il paese risorto dalle ceneri di Malpasso, che appena 24 anni prima (1669) era stata sepolta dalla lava. Un destino crudele per gli abitanti di questo lembo di Sicilia, nei pressi di Catania, che in un quarto di secolo subirono ben due eventi funesti, ma che ebbero la tenacia e l’amore di ricostruire la nuova comunità (l’attuale Belpasso) pressappoco negli stessi luoghi dell’Etna per quell’atavico amore verso la Muntagna. Quello che segue è un capitolo del libro di Luciano Mirone, Itaca, dedicato a questi fatti.

Tante volte, quando ero bambino, mi parlavi del paese distrutto. Erano racconti veri, tramandati da padre in figlio e giunti fino a noi. Ed io immaginavo il fuoco del vulcano che, avanzando lentamente, travolgeva monti colline e vallate e divorava tutto, ed immaginavo i paesani in processione con la statua e le reliquie della santa, alcuni addirittura che si auto flagellavano per penitenza, e tutti pregavano affinché il fuoco si arrestasse.

Ma quell’undici marzo del Milleseicentosessantanove non ci fu nulla da fare: il paese scomparve dalla faccia della terra, sommerso da un mare di lava incandescente che coprì tutto e arrivò fino a Catania. Gli abitanti si salvarono perché le lave di questa Montagna distruggono ma procedono lentamente, dando il tempo alla gente di salvarsi. La popolazione cominciò a vagare per cercare un rifugio: alcuni trovarono ospitalità in qualche centro limitrofo, ma molti rimasero nelle loro terre per non perdere il filo della memoria.

Fondarono il paese qualche chilometro più a valle, in una zona fertilissima e pianeggiante dove ogni tipo di coltivazione avrebbe garantito il sostentamento, un luogo immerso nella vegetazione grazie al duro lavoro dell’uomo che nel corso dei secoli, sottraendo immense masse laviche alla natura, bonificò quei terreni e vi piantò l’ulivo che con le sue robuste radici frantumò la roccia e rese agevole la coltivazione di molte varietà di piante.

Un luogo luminoso e aperto verso la costa ionica fino a Siracusa da un versante, e verso l’Etna dall’altro, con la vasta plaga che si perde a vista d’occhio, avvolta da quei colori intensi che, quando il sole si perde dietro le montagne, diventano drammatici perché tingono di fuoco le nuvolaglie e inondano la pianura di tanti fasci di luce che sembrano provenire da un luogo alto e immenso.

Come troiani del Diciassettesimo secolo scampati alla distruzione della loro città, i miei avi ricostruirono le strade, le case e le chiese e in una di esse riposero la statua e le reliquie di santa Lucia, che il parroco aveva pensato di salvare dalla lava, e vi sistemarono anche il crocifisso in legno d’arancio, con il Signore che esala l’ultimo respiro.

Sul modello della nuova architettura edificarono il nuovo centro secondo lo stile barocco del tempo, e lo chiamarono Fenicia, in ricordo del mitico uccello descritto da Erodoto che, risorto dalle ceneri, vola verso il cielo.

Per quasi un quarto di secolo gli abitanti di Fenicia vissero in grazia di Dio, risollevandosi dal dramma che, come un incubo, si ripresentava ogni qualvolta che la Montagna emetteva un gemito. La gente guardava al futuro con ottimismo grazie alle sconfinate risorse di cui il territorio disponeva, ma non prevedeva che, appena ventiquattro anni dopo, un evento più funesto avrebbe distrutto il nuovo paese.

Nei giorni nove e undici di gennaio del Milleseicentonovantatrè, quando i botti del nuovo anno si erano sopiti da oltre una settimana, una violentissima scossa di terremoto rase al suolo la nuova comunità lasciando morti e feriti sotto le macerie e i superstiti nella disperazione. Gli abitanti presero quelle quattro suppellettili che restavano e, spinti da un amore profondo, riedificarono il loro paese in una zona vicina e altrettanto bella, ma studiata per limitare i danni in caso di eruzione, un sito naturalmente predisposto con una lieve pendenza che avrebbe consentito alla lava di scorrere dai fianchi, evitando la distruzione del centro abitato.

Il nuovo paese fu edificato secondo i modelli barocchi del tempo, con una maglia a scacchiera composta da una lunga via principale in direzione Sud-Nord, verso la Montagna, e tante rette e traverse, palazzi nobiliari, case per mastri e contadini, piazze, e la chiesa Madre dove fu posta la statua della santa protettrice, il crocifisso in legno, e la campana più grande dell’isola, costruita fondendo il rame, l’argento e l’oro offerti dai cittadini.

Un paese costruito con la pietra nera del vulcano, con la pietra bianca di Siracusa e con quell’impasto di calce, sabbia vulcanica e cocciopesto che servì per le facciate. Un paese fatto di case a pian terreno per i poveri e a un piano per i signori.

Per tanto tempo non fu facile dimenticare. Non fu facile perché nei centri distrutti, ognuno aveva lasciato una parte di sé: a piedi o col carretto si faceva ritorno nei luoghi dell’anima: nel paese distrutto nel Milleseicentosessantanove per vedere quella coltre di sciara sotto la quale “dormivano” le vecchie case, nel paese distrutto nel Milleseicentonovantatrè per rimirare uno scorcio di casa, di chiesa, di balcone, o semplicemente per osservare il tramonto che, dopo quella sciagura, diventò più struggente. Andavano gli abitanti sulle tracce del loro passato, nel tentativo di ricongiungersi con la loro anima. E poi tornavano a casa.

Passarono gli anni, cambiarono le generazioni: del primo paese restarono solo i racconti che i genitori facevano ai figli e che i figli tramandavano ai figli, del secondo non solo i racconti, ma anche quei ruderi rimasti in piedi. Gli abitanti, fino ai primi del Novecento, trascorrevano i lunedì di Pasqua nella zona di Fenicia. Andavano per far festa, ma anche per parlare in silenzio con quelle pietre che ancora avevano tanto da dire.

Nella foto: l’immagine dell’eruzione del 1669 che seppellì Malpasso (poi Fenicia Moncada, oggi Belpasso) ed arrivò fino a Catania

Luciano Mirone