Lavoro, immigrazione, sesso, economia, politica, società, ambiente. Sono gli argomenti su cui oggi ruotano le cosiddette “chiacchiere da bar”. Per un caffè al volo, sui banchi di scuola o con i propri colleghi in ufficio, a tavola con la famiglia o insieme agli amici a una cena o a una bevuta. Sono le cose più importanti della nostra vita, che ci formano e ci fanno andare avanti ogni giorno.

Di cosa parlare, altrimenti? La pensa così anche un 17enne di Cinisi. Nel 1966 ha così tanta voglia di parlare del mondo che lo circonda, ma così poca gente disposta a conversare con lui, o semplicemente ad ascoltare. Così gli viene incontro letteralmente una “Idea”: è questo il nome del giornale fondato da alcuni giovani vicini al Psiup (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). Il partito nasce da una spaccatura nella sinistra – l’ennesima, viene da pensare guardando anche i giorni nostri – con i socialisti contrari ad allearsi con i comunisti.

Una scissione nata con il governo di Aldo Moro. Sono gli anni in cui l’ex premier fa la storia della Seconda Repubblica con il compromesso storico, riavvicinando il Pci alla Democrazia Cristiana. È un rapporto molto superficiale, ma in qualche modo il piano riesce. Fino al 9 maggio 1978, quando le Brigate Rosse, dopo averlo rapito circa due mesi prima, lo uccidono.

Su questa data ci sarebbe qualcosa da dire, ma andiamo con ordine. Cinisi, dicevamo, con “L’Idea” che parla di temi che tutti ormai consideriamo comuni. Ma non all’epoca di Peppino Impastato, quel 17enne che assaporava per la prima volta i concetti di libertà d’espressione e presa di coscienza. A due anni dalla rivoluzione sessantottina, Peppino quegli argomenti li tratta tutti.

Ma parlare di sesso ai tempi della censura, lavoro ed emigrazione quando il culto dell’Italia che sta bene e rinasce è fondamentale per l’immagine di una bella Italia, quando ambiente e società sono strettamente connessi nel non dare importanza alla Terra che abitano gli individui, diventa piuttosto complicato.

E questo anche se ciò che usciva nelle edicole, scriverà il Giornale di Sicilia, “erano pochi fogli dattiloscritti e sfumati”. Però sono ruvidi, scritti da giovani penne graffianti. Perciò fanno paura. Cinque giorni dopo la prima uscita, i ragazzi di Cinisi sono convocati in caserma. Sul gruppo viene fatta un’inchiesta, poi un fascicolo, poi il verdetto: “L’Idea” è fuorilegge e pubblica clandestinamente. Ma il tutto si riduce a un’ammenda e dopo qualche tempo si torna a scrivere. Si parla ancora di cose che la gente mastica tutti i giorni: politica, problemi sociali, cose che non vanno.

È la “controinformazione”, un termine che nel 2022 è decisamente inflazionato, con centinaia di blog che spuntano ovunque arrogandosi il diritto di dire la verità “perché è così e loro non ce lo dicono”. Ma in questa storia c’è davvero un grande sistema contro cui scagliarsi: un Loro esiste, ed esiste anche chi lo combatte.

Peppino scrive un articolo, con titolo a caratteri cubitali, urlato anche da Luigi Lo Cascio nel bel film “I cento passi” diretto da Marco Tullio Giordana: “La mafia è una montagna di merda”. Ma come, pensano tutti: mafia lì? Nella nostra bella Cinisi? Impossibile.

Il testo provoca pesanti pressioni e gravi intimidazioni nei confronti di tutta la redazione. Causa anche la prima profonda frattura tra Peppino e la sua famiglia, per un motivo molto semplice: Cosa Nostra. Peppino nasce in un ambiente legato alla mafia siciliana. Basta guardare papà Luigi, inviato al confino durante il periodo fascista per la sua appartenenza alla criminalità organizzata. Oppure suo zio, Cesare Manzella, ritenuto “capoclan” di Cinisi e ucciso nel 1963 in un attentato con una Alfa Romeo Giulietta riempita di tritolo. O più spaventosamente ancora a Gaetano Badalamenti, successore di zio Cesare, con ruoli di primo piano nel traffico internazionale di droga con il controllo dell’aeroporto di Punta Raisi.

Gaetano che Peppino, in un programma di Radio Aut dal titolo “Onda pazza a Mafiopoli”, chiamerà sarcasticamente “Tano Seduto”. Ecco, sono questi argomenti gli di cui parla quel ragazzo di Cinisi, che a 19 anni, sull’Idea ha il coraggio di fare nomi e cognomi invischiati nella mafia e nella politica, che fanno il bello e il cattivo tempo a Cinisi come nel resto dell’Italia.

È l’ultima volta, perché il giornale chiude i battenti. Lasciato solo, senza fondi, messo a tacere. Peppino zitto però non ci sa stare. La sua attività di denuncia sociale è appena agli inizi e per 11 anni prosegue senza sosta, tra marce in piazza, una candidatura per cercare di cambiare davvero il suo piccolo Comune e l’ennesima denuncia a voce alta contro uomini che speculano e devastano il territorio.

Finché a 30 anni suonati e a pochi giorni dalle elezioni del 1978, su commissione di “Tano Seduto”, viene rapito di notte e portato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani insieme a una carica di tritolo. Si inscena un suicidio, con tanto di lettera dove annuncerebbe di volerla fare finita. Felicia, sua mamma, non ci crede. E col tempo non ci crederanno poliziotti, magistrati, alte cariche dello Stato. Ci vuole tempo però.

Nel 2001 in Corte d’assise condanna Vito Palazzolo, primo mandante dell’omicidio, a 30 anni di reclusione. Il secondo, Badalamenti, è condannato all’ergastolo nel 2002. Felicia fa in tempo a vedere tutto.

Ora torniamoci a quell’Aldo Moro. Il 9 maggio 1978 è un giorno funesto per la politica italiana, con l’intero Stato che si interroga su cosa si stia sbagliando in quella che viene già definita “stagione stragista” degli anni Settanta. Una “strategia della tensione” che mina i poteri forti, ora preoccupati a salvare l’apparenza e prima ancora la pelle, incapace di gestire una violenza figlia di quel ’68 che doveva cambiare tutto e così non è stato.

Quel giorno è la presa di coscienza di una nazione, non si torna più indietro. In tutto questo, Peppino muore solo, così com’è stato lasciato troppe volte nella sua breve e intensa vita. Del resto, chi se ne importa di un trentenne che si toglie la vita, per giunta in uno sperduto paesino in provincia di Palermo, quando hai Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani, a Roma? A

Allora non è stato fatto e non si è dato soprattutto importanza a cosa Peppino diceva negli anni più difficili in cui poter parlare. Quelli del “la mafia non esiste”, “qualche delinquente e niente più”, “invenzione delle malelingue e della stampa”. Si dice ancora oggi, certo, ma molto meno. Ed è proprio per quel “si dice” che la Carovana Antimafia prosegue anche il cammino di Peppino Impastato, oltre a tantissimi altri ragazzi, magistrati, giornalisti, forze dell’ordine, lavoratori, uomini e donne che non piegano la testa, fanno nomi e cognomi delle persone che rovinano il paese che abitano, denunciano un cancro sociale convinti che sia la scelta giusta per l’intera Italia. Noi siamo dalla loro parte, quella di Peppino Impastato. E voi?

Nella foto: Peppino Impastato poco tempo prima di essere ucciso dalla mafia

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