“I pupi hanno un’anima”. Non è una frase buttata lì per caso. E’ una frase alla quale Salvo Mangano, 76 anni, crede ciecamente: per lui, puparo da quando era bambino, i paladini non sono solamente una combinazione fra legno, metallo, colori, stoffa e piume, ma un’alchimia “viva” che trae origine dalla notte dei tempi e arriva magicamente fino a noi, sopravvivendo agli uomini che li hanno costruiti e a quelli che li hanno manovrati: gli uomini sono morti, i pupi sono rimasti eterni.

E adesso sono lì, con le loro spade, le loro armature, i loro elmi, che ti scrutano, dopo una battaglia campale con “le teste scippate e il sangue che scorre a fiumi”, il combattimento di Orlando e Rinaldo “per la bella Angelica”, le gesta di Carlo Magno e di Ferraù, la scesa in campo di don Chiaro, il tradimento di quel “gran ribaldo” di Gano di Magonza, puntualmente vendicato dagli spettatori più turbolenti con micidiali lanci di chiavi, di scarpe e di arance, fra i quali si affollano pescatori, pescivendoli, falegnami, carrettieri, calzolai, contadini e studenti, mentre il venditore di “calia e simenza” si aggira fra le panche, e il fumo dei “sicarri” e delle “pipe di radica” si espande verso le volte altissime del soffitto.

Salvo Mangano mentre lavora un suo pupo (tratto dalla Mostra fotografica di Gianfranco Consiglio, Alessio Drago, Giuseppe Fichera, Daniela Sidari e Pietro Urso). Sopra: Salvo mangano mentre parla con i suoi pupi (foto Archivio Mangano)

Ti guardano quei pupi, con gli occhi neri, ti fissano e sembra che vogliano dire qualcosa, “in questo ambiente piccolissimo ma colmo di meraviglie che è la fucina di Salvo Mangano” (come scrive Daniela Sidari), a prescindere se sono cristiani o pagani, dopo essere stati a combattere nella Valle di Roncisvalle e aver dato vita alla Chanson de Roland, alla Gerusalemme liberata e all’Orlando furioso. Una dissertazione di ore, una sintesi alla quale il rinomato puparo (citato pure nei libri di storia) di San Pietro Clarenza, paese alle falde dell’Etna, è arrivato dopo decenni di contatti quotidiani coi suoi personaggi.

“I pupi hanno un’anima”. Non nel senso letterale, ma nel senso storico e culturale: “Hanno un’anima perché sono sopravvissuti perfino alla televisione, che voleva ucciderli. Invece continuano ad essere immortali e a stupire il mondo. Vedrete che vivranno anche quando la televisione morirà”.

Salvo Mangano è uno degli ultimi epigoni di una straordinaria tradizione che storicamente in Sicilia – secondo gli studiosi – si identifica nelle famiglie Munna di Monreale (che inventò la famosa “battaglia danzante”); di Giacomo Cuticchio di Gela e del figlio Mimmo di Palermo; Argento, Mancuso, Bumbello (compagnia Brigliadoro) e Greco di Palermo; Canino di Partinico e Alcamo; Crimi, Trombetta e Napoli di Catania (anche se nel capoluogo etneo si possono contare molti più  pupari di quanti non dicano i testi di storia); Pennisi, Macrì e Grasso di Acireale; Profeta di Licata; Puglisi e Vaccaro-Mauceri di Siracusa, senza contare le dinastie siciliane che hanno esportato la tradizione oltre Stretto.

Alcuni pupi di Salvo Mangano (tratto dalla Mostra fotografica di Gianfranco Consiglio,  Alessio Drago, Giuseppe Fichera, Daniela Sidari e Pietro Urso)

“Iniziai a fare il puparo all’età di quattro anni”, dice Mangano. “Mio padre faceva il finanziere a Giardini Naxos, vicino Taormina, la famiglia lo seguiva sempre nei suoi trasferimenti. Un giorno arrivò un carretto pieno di personaggi fantasmagorici che impugnavano le spade e gli scudi. Erano bellissimi. Chiesi al carrettiere: ‘Chi sono?’. ‘I pupi siciliani’, disse lui. ‘Questa sera facciamo l’Opira ‘e pupi, perché non vieni?’. Il teatrino era ubicato in un vecchio magazzino adattato per l’occasione. Quando li vidi sul palcoscenico con quelle movenze ritmate, quei costumi sgargianti e quelle voci possenti ebbi i brividi, restai incantato, come se all’improvviso fossi diventato uno di loro. Volevo salire sul palco e combattere le loro guerre, vivere i loro amori, ma non potevo. Dal giorno dopo cominciai a costruire i pupi e diventai puparo, diedi una voce, un sorriso, un pianto ai miei personaggi, e anche la mia anima. Possibile che tutto questo mi fosse accaduto a quattro anni? Pochi ci crederanno, ma vi assicuro che è possibile”.

Da allora Salvo fa ininterrottamente questa attività. Ha costruito e dipinto oltre centocinquanta pupi, usando ottone e rame per le armature; legno per le teste, i busti e le gambe; velluto e raso per i vestimenti; ferro per aste e spade.

Bisogna vedere (e soprattutto sentire) come ne parla. La differenza fra la tradizione catanese e quella palermitana, le parole più usate nell’Opera dei pupi, il significato di manianti (colui che manovra i pupi) e di parriaturi (colui che declama), i nomi dei suoi “grandi maestri”, da Salvatore Laudani a Nino Insanguine, da Turi Faro alle famiglie Napoli e Roccazzella, fino al parriaturi Biagio Sgroi.

Il puparo all’opera (tratto dalla Mostra fotografica di Gianfranco Consiglio,  Alessio Drago, Giuseppe Fichera, Daniela Sidari e Pietro Urso)

“I pupi hanno un’anima. Mia moglie ne è la dimostrazione”. Pina Tedesco, venuta a mancare diversi anni fa, che con dolcezza lo aiutava a confezionare i vestiti dei paladini. Quando ne parla, Salvo si interrompe. Ingoia un po’ di saliva e riprende.

“A Catania c’erano pupari a ogni angolo di strada. Le nuove generazioni non hanno idea di cosa si siano perse. Non è nostalgia. È l’evocazione di un mondo che oggi non si riesce neanche a immaginare. E’ poesia. La mia storia l’ho raccontata in una commedia, ‘A tila si isa ancora, in cui descrivo retroscena e personaggi legati all’Opera dei pupi”.

Il puparo fa una pausa. Intinge il biscottino da dessert nel caffè, sorseggia l’ultimo sorso ed assapora lo zucchero che risiede nel fondo.

Poi fa un sorriso. “Io mi identifico in Rinaldo, è gagliardo, sentimentale, odia le ingiustizie ed è molto sensibile al fascino femminile. Orlando è supponente, superbo e crede di essere invincibile. Mi fa un po’ di pena, come tutti gli uomini che non mostrano vulnerabilità. Sì, i pupi hanno un’anima. Sfido chiunque a dimostrare il contrario”.

Luciano Mirone