La corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime.

Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.

Il senatore Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia

LA STORIA. La storia sarebbe cominciata dopo l’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima nel marzo 1992 e sarebbe entrata nel vivo tra l’attentato a Giovanni Falcone e la strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino. In quella stagione sarebbero cominciati gli incontri riservati del comandante del Ros, Mario Mori, e del suo braccio destro Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino.

Per la Procura di Palermo da lì sarebbe partita la “trattativa” tra Stato e mafia. No, hanno sempre sostenuto i due ufficiali: quella era un’attività investigativa, che trova ora riscontro nella sentenza d’appello, con cui si mirava a fermare le stragi e a catturare Totò Riina.

Le posizioni non sono mai cambiate sin da quando – era il 2008 – il caso è diventato un fascicolo giudiziario: 13 anni di indagini sfociate nell’assoluzione di investigatori e politici.
    Anche grazie alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (poi giudicato inattendibile in molte sue ricostruzioni), solo nove anni fa, il 29 ottobre 2012, la vicenda è approdata in dibattimento con l’udienza preliminare conclusa con il rinvio a giudizio di Riina e del cognato Leoluca Bagarella, di Bernardo Provenzano, Mori, De Donno, Massimo Ciancimino, Marcello Dell’Utri indicato come il tessitore politico della “trattativa”, Giovanni Brusca, Antonino Cinà medico di Riina e postino del “papello” con le richieste dei boss, Antonio Subranni all’epoca capo di Mori. A giudizio era finito anche l’ex ministro Nicola Mancino ma solo per falsa testimonianza.

Sarà assolto. Tra gli accusati c’era anche l’ex ministro Calogero Mannino dal quale tutto sarebbe partito: per l’accusa avrebbe innescato proprio lui la “trattativa” dopo avere ricevuto pesanti minacce dalla mafia. Mannino è però uscito di scena: ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto definitivamente in Cassazione l’11 dicembre 2020. È una sentenza che ha messo in discussione l’impianto del processo, come dicono ora anche i giudici di appello.

Il generale Mario Mori

In primo grado il dibattimento, presieduto da Alfredo Montalto, era cominciato il 27 maggio 2013 e si era concluso con condanne molto severe il 20 aprile 2018, quando Riina e Provenzano erano già morti. La pena più grave – ben 28 anni – era andata a Bagarella. E poi 12 anni per Mori, Subranni, Dell’Utri e Cinà, 8 per De Donno. La condanna a 8 anni di Ciancimino (calunnia) è già prescritta. Prescritte anche le accuse a Brusca. Per i giudici di primo grado la “trattativa” dunque ci fu ed era illegittima perché protagonisti erano uomini delle istituzioni e soggetti che “rappresentavano l’intera associazione mafiosa”. Su questa tesi accusa e difesa hanno ingaggiato nel giudizio di appello, cominciato il 29 aprile 2019, un confronto molto serrato. E stavolta il verdetto è ribaltato. C’erano le minacce della mafia ma non la “trattativa”. 

IL PARERE DELL’EX PM INGROIA. “È una sentenza che va valutata attentamente e per questo si devono attendere le motivazioni. A me pare comunque che, secondo i giudici di appello, la trattativa c’è stata ma gli investigatori avrebbero agito a fin di bene. Da qui la loro assoluzione perché il fatto non costituisce reato”. È per questo che l’ex magistrato Antonio Ingroia, simbolo del processo per la trattativa Stato-mafia, parla di una “sentenza double face”: da un lato accoglie la tesi dell’esistenza storica di un dialogo con i vertici della mafia e dall’altro avalla la spiegazione che quelli erano “colloqui di polizia giudiziaria”.

Antonio Ingroia, ex pm del processo Trattativa

Da altri punti del verdetto Ingroia trae poi il convincimento che i giudici abbiano confermato “l’esistenza di un papello con le richieste dei boss”. “Il dispositivo – aggiunge – mi induce a pensare pure che, secondo la corte, il papello sarebbe arrivato al potere politico, cioè al governo. E così si spiega la condanna di Antonino Cinà, il medico di Riina accusato di avere portato ai suoi interlocutori l’elenco delle richieste”.

La sentenza di appello arriva a distanza di molti anni dai fatti e dalle prime inchieste della magistratura. I tempi sono stati lunghi, ammette Ingroia, “ma posso dire che ne è valsa la pena”. “Il procedimento – ricorda – è passato attraverso vari livelli di verifica: il gip ha deciso il rinvio a giudizio degli imputati e la corte d’assise ha emesso una sentenza di condanna. L’accusa aveva quindi portato elementi importanti e le nostre non erano fantasie giudiziarie”.

Ingroia teme ora che una lettura superficiale della sentenza possa comportare un serio rischio: “Qualcuno potrebbe pensare, certamente sbagliando, che pagano solo i mafiosi. Non vorrei dare ragione a Totò Riina il quale sosteneva di essere diventato il ‘parafulmine’ di tutto”. 

Ansa