La Trattativa ci fu. È certo. Pezzi dello Stato trattarono con la mafia per evitare che altri omicidi politici, oltre a quello di Salvo Lima, e altre stragi, oltre a quelle di Capaci, di via D’Amelio e del nord Italia, potessero continuare a insanguinare il nostro Paese. Paolo Borsellino intuì questa terribile, ma non gli fu consentito di rivelarla a qualcuno: fu fatto a pezzi dalla mafia, con il concorso di entità deviate dello Stato.

Adesso anche i giudici di appello confermano: la Trattativa fra Stato e mafia si svolse. Con una differenza: quelli di primo grado la considerano reato, quelli di secondo grado no.

Non entriamo nel merito delle decisioni dei giudici, anzi ci rallegriamo nel vedere l’Italia sempre più garantista e sempre più culla del diritto (frase estremamente retorica, ma sicuramente vera, almeno rispetto all’Azerbaigian), ma non possiamo fare a meno di registrare per l’ennesima volta che su certi argomenti – il Terzo livello, quello che vede la commistione micidiale fra politica, massoneria e servizi segreti – in Italia è meglio non parlare.

Non da ora. Ma da oltre settant’anni. Dalla strage di Portella della Ginestra (per non scomodare lo sbarco di Garibaldi in Sicilia) fino ai giorni nostri, passando per piazza Fontana, per Brescia, per l’Italicus, per piazza della Loggia, per la stazione di Bologna, per i delitti mafiosi di magistrati, di carabinieri, di poliziotti, di sindacalisti, di uomini politici come Aldo Moro, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. 

Di certe cose meglio non parlare, perché in questo Paese di grandi tradizioni democratiche un fatto è oggettivamente vero: a pagare – quando paga – è sempre il “braccio armato”, i “malacarne”, i mafiosi che puzzano di stallatico e di sangue, mai i mandanti occulti col colletto inamidato e il linguaggio forbito.

Nelle sentenze si ammette sempre l’esistenza di un Terzo livello, ma poi c’è sempre qualcosa – un distinguo, un cavillo, una mancanza di prova – che manda in fumo anni di inchieste, fiumi di inchiostro, dichiarazioni di pentiti, riscontri, rogatorie e tanto altro.

Diciamo la verità: questa sentenza non ci sorprende, come non ci sorprende la Trattativa. L’Italia è sempre stato un Paese in trattativa. Quella degli anni Novanta – della quale oggi parliamo – è solo la punta dell’iceberg, ma trattative ci furono per evitare che i mandanti degli eccidi e degli omicidi più clamorosi venissero scoperti e condannati.

Trattativa ci fu per evitare che Salvatore Giuliano facesse i nomi dei politici che gli avevano commissionato Portella della Ginestra, per evitare che il cugino Gaspare Pisciotta – una volta che lo Stato si sbarazzò di Giuliano con quella messa in scena del cadavere esposto nel cortile Di Maria di Castelvetrano – vuotasse il sacco, per evitare che venissero fuori i nomi dei politici che stavano dietro alla strage della Banca dell’agricoltura.

Trattativa ci fu per depistare i delitti De Mauro, Dalla Chiesa, Agostino e Fava.

Trattativa c’è stata per insabbiare la morte dell’urologo Attilio Manca, coinvolto nell’operazione di cancro alla prostata del boss Bernardo Provenzano, considerato l’anello di collegamento fra Cosa nostra e le grandi entità di Stato che oltre dieci anni prima avevano stipulato il patto per la Grande Trattativa sulla quale ieri è stato emesso il verdetto. Insomma, una Trattativa nella Trattativa. Nella culla del diritto e della democrazia non ci si può, nè ci si deve meravigliare di niente.

Luciano Mirone