La telefonata arriva verso le 19,30 di un qualunque giorno di agosto del 2021.

“Pronto, poco fa tuo figlio, giocando al pallone, si è infortunato ed è stato trasportato con un’ambulanza al Pronto soccorso di Taormina”.

Ti assale la paura e lo smarrimento, ma alla fine trovi la forza per chiedere: “Cos’ha?”

“Gli è uscita la spalla di fuori”.

“Una lussazione?”.

“Esatto”.

Con mia moglie corro in ospedale. Una gruppo di ambulanze è disposto nel piazzale antistante in attesa di qualcosa. Giuseppe – ci chiediamo – è all’interno dell’ambulatorio o ancora sul mezzo? Quando il barelliere, al alta voce, domanda al medico del 118, “Che dobbiamo fare con questo ragazzo?”, capiamo qual è l’ambulanza giusta e andiamo.

Giuseppe è un ragazzo di 19 anni pieno di vita e di esuberanza. Negli anni della sua infanzia piangeva spesso. Per un giocattolo rotto, per una partita persa, per un rimprovero. Durante l’adolescenza ha mantenuto la stessa esuberanza, ma le sue emozioni preferisce non esprimerle con le lacrime. 

Quella sera, quando il barelliere apre lo sportello, lo vedo piangere. È seduto su una sedia a rotelle, ingobbito su se stesso, con pudore e col capo basso, vuole nascondere le lacrime.

“Giuseppe!”. Alza appena gli occhi e non dice niente. “Come stai?”. Non risponde. Improvvisamente mi tornano davanti agli occhi certe scene della sua infanzia: aveva quattro o cinque anni, era di notte, un ricovero improvviso al “Garibaldi nuovo” di Catania per un attacco di appendicite che finì con l’intervento chirurgico, e lui, dopo l’operazione, ci abbracciava inconsolabile: “Se non fosse stato per voi non mi sarei salvato. Mi siete stati vicini tutto il tempo. Siete i due genitori più bravi del mondo”.

Mentre lo guardo ingobbito su quell’ambulanza, vengo pervaso dalla stessa tenerezza di allora, improvvisamente lo vedo disarmato, senza quella spacconeria tipica dei ragazzi, solo con quel costume da bagno, il torso nudo, la sabbia ancora attaccata alle braccia e quella spalla scomposta che si gonfia sempre di più.

Una indicibile tenerezza nel non sentirgli pronunciare un lamento, nel vedere la dignità di sopportare un dolore atroce. Quella spalla attende solo di essere composta da un ortopedico. E lui lo dice: “Per favore, mettetemi a posto la spalla”. Questione di un paio di minuti, una piccola manipolazione e l’osso si mette al posto giusto.

Nei luoghi normali è così. In Sicilia è diverso. Specie nella “capitale del turismo siciliano”, dove l’ortopedico del Pronto soccorso, alle 20 “smonta” dal suo turno e non c’è alcun collega pronto a sostituirlo fino all’indomani mattina. “Lo dice la circolare”, ti spiegano. 

La circolare? Certo. Sono le disposizioni emanate dall’alto. Ma la circolare non tiene conto che ci troviamo in uno degli ospedali più importanti della regione, fra i più importanti del Meridione, dato che in questo luogo rinomato arrivano turisti da tutto il mondo. Che però – almeno in ortopedia – possono essere soccorsi fino alle 20. Dopo può succedere di tutto.

Tralasciamo il fatto che l’ambulanza è arrivata sul posto dell’incidente intorno alle 19,20, che da qui all’ospedale di Taormina il tragitto è di una quindicina di minuti (e siamo intorno alle 19,30), che il medico del 118 si sarà messo in contatto – almeno così sappiamo, ma preferiamo mantenerci prudenti – col Pronto soccorso dove, siccome non erano scoccate le fatidiche ore 20, potrebbero aver detto di far salire l’ambulanza. Ma siccome poi è scattata l’ora X, o meglio, “potrebbe” essere scattata l’ora X (ma non ne siamo sicuri perché viaggiamo sul filo del minuto più minuto meno), cu mori mori e cu campa campa, proverbio siculo che tradotto in italiano vuol dire che se sei fortunato te la cavi, sennò puoi anche crepare.

Ecco, tralasciando tutto questo (che meriterebbe un’inchiesta approfondita per comprendere eventuali responsabilità interne), diciamo che in fondo la lussazione di Giuseppe è importante, ma non così estrema rispetto alla gravità di altre situazioni che si verificano giornalmente, e ci chiediamo: e chi arriva in fin di vita per un incidente stradale o per essere caduto dagli scogli, che fa, aspetta fino all’indomani? Beh, la circolare è circolare. Protestiamo col personale, tempo perso. La burocrazia prima di tutto.

E allora?

“Allora – dicono quelli del 118 – abbiamo contattato i Pronto soccorso disponibili: Messina o Acireale. Alla fine optano per Acireale, una ventina di minuti da qui. Prendiamo la macchina, mai tragitto è sembrato così lungo.

Il Pronto soccorso di Acireale è come tutti i Pronto soccorso della Sicilia. Una costruzione risalente a venti, trent’anni fa, ma con gli inguaribili vizi nostrani da cui progressivamente è stata affetta: una specie di girone dantesco dove le anime dannate – una persona sofferente o i familiari del paziente ricoverato – cercano disperatamente qualcosa. La persona sofferente cerca di spiegare i suoi sintomi. I familiari del paziente cercano disperatamente notizie.

A fornirle non è un medico o un infermiere della struttura, ma un vigilantes, con tanto di divisa e pistola, piazzato all’ingresso dell’astanteria che discetta di coliche, di appendiciti, di fratture, di infarti, di ictus, il quale, con gentilezza ma con decisione, ci spiega che “la situazione di Acireale non è scandalosa” come quella di Taormina”, poiché qui l’ortopedico è di “pronta reperibilità”, ma a condizione che il problema sia contemplato dai “protocolli” (altro termine burocratico che ci fa sobbalzare).

In altri termini: la visita dello specialista, e quindi l’intervento manuale, può aver luogo “solo” se questi – ricevuto il referto dal personale di guardia – ritiene che si tratti di una patologia prevista dai codici, cioè urgente. Sennò c’è sempre quella taumaturgica frase che dalle nostre parti è meglio di un mantra: se-ne-parla-domani-mattina.

Domani mattina? Ma il ragazzo sta soffrendo maledettamente. “Le disposizioni sono queste”.

Giuseppe viene parcheggiato nel corridoio, viene chiusa la porta ed intanto affluisce altra umanità con i problemi più disparati. C’è l’ingegnere arrivato all’ora di pranzo che, alle dieci di sera, attende di sapere se quel dolore alla bocca dello stomaco è causato da un infarto o da una gastrite, c’è l’anziano che cerca disperatamente di spiegare al vigilantes che la moglie – al Pronto soccorso da tre ore – prende certe medicine che potrebbero essere incompatibili con quelle che le stanno somministrando, c’è la signora che stamattina è caduta dalla scala stamattina e che è piena di lividi, la quale molto garbatamente spiega che si sente male, ma la guardia le dice di aspettare il suo turno.

Tutti aspettano un turno. E parlottano. Molti arrivano dai quartieri popolari dei centri vicini, gli uomini sono tatuati e con le pance, le donne indossano fuso neri molto attillati. Arrivano molti bambini, alcuni con la febbre, altri col mal di gola, altri con le costole rotte per essere caduti dalla bici. Piangono in braccio alle loro mamme.

Intanto l’infermiera dice sottovoce che in ospedale è scoppiato un caso di Covid, mentre la signora che stamattina è caduta dalle scale stramazza per terra perché è esausta dalla lunga attesa. Finalmente le prestano soccorso e la trasportano in barella.

E’ mezzanotte. “Suo figlio deve sottoporsi a radiografia”. Lo portano nei sotterranei dell’ospedale. Prima di lui ci sono alcune persone. Un’ora.

Dopo c’è l’elettrocardiogramma. Intanto scocca l’una. Tutto a posto, ci dicono.

Aspettiamo ancora. Abbiamo perso la cognizione del tempo. Finalmente ci dicono che il medico di “pronta reperibilità” è arrivato. Dopo un po’ aprono la porta del corridoio e finalmente vediamo un Giuseppe rinfrancato che parla con l’ortopedico e con alcuni infermieri. Da lontano ci alza il pollice per dire che tutto è ok. L’intervento manuale, ci dice, è riuscito ed è durato sì e no, un paio di minuti. Possiamo tornare a casa. Sono le 3 quando arriviamo.

Nella foto: l’ospedale di Taormina (Messina)

Luciano Mirone