Trentotto anni fa a Palermo veniva fatto a pezzi con un’autobomba imbottita con 75 chili di esplosivo il consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici, ‘padre’ del pool antimafia di Falcone e Borsellino. Assieme a lui persero la vita il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta – componenti della scorta – e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. Questo il ricordo dell’uomo che scampò alla strage, l’autista del magistrato Giovanni Paparcuri.  

Giovanni Paparcuri. Sopra: la strage di via Pipitone Federico a Palermo

‘Il 29 luglio del 1983, mi svegliai come al solito verso le 6:30, non c’era nulla che facesse presagire che da lì a poco sarebbe successo l’inferno, a parte la vicenda del libanese che preannunciò la strage, ero sereno, magari ero convinto che certe cose non potevano accadermi, oppure ero tranquillo perché facevo un lavoro che ho voluto e che mi piaceva tantissimo, infatti per tale motivo lasciai le ferrovie.

Mio padre non era d’accordo per questa mia decisione, mi ricordo che quando presi possesso mi disse, come un presentimento: “a tia ti succederà qualcosa”, ma me lo disse perché come una calamita attraggo tutte le situazioni pericolose. Comunque, feci colazione, preparata da mia madre, ossia un tazzone di latte come se dovesse essere l’ultima tazza della mia vita. Feci la doccia e mi vestii, e dovevo decidere se mettere la giacca o meno, la decisione dipendeva se portare la pistola o meno, in ogni caso non serve e non sarebbe servita a niente.

Per cui verso le 7 mi affacciai al balcone per assaggiare il tempo, il cielo era bello azzurro, e anche se non faceva tanto caldo, decisi che non avrei messo la giacca, poi il caldo l’avrei sentito poche ore dopo. Guardai giù, c’era ancora posteggiata la Lancia Fulvia coupé color oro del dr. Fiore, sì, il marito di Rita Borsellino, che io chiamavo signora Fiore e nemmeno sapevo che era la sorella del dott. Borsellino, abitavano anche loro in via Antonio Ugo, 70, loro al secondo piano e noi al terzo.

Presi la mia agendina, le chiavi della mia A112 blu, salutai mia madre che mi rispose stranamente solo con uno sguardo, mio padre era già all’officina. Andai con calma al Palazzo di Giustizia a prelevare l’Alfetta blindata beige, che non era in dotazione al Consigliere Chinnici, per lui c’era una Lancia Gamma, l’Alfetta era stata assegnata al giudice Falcone, io però preferivo guidare quest’ultima, perché era molto più maneggevole.

Il consigliere Rocco Chinnici – a destra – insieme a Giovanni Falcone

Arrivai in via Pipitone verso le 7:50, e posteggiai esattamente dove volevano i cosiddetti uomini d’onore, tra la 126 verde imbottita di tritolo e una 500 color beige, insomma quello spazio fu la trappola. Sul posto già c’erano i ragazzi con l’Alfasud di scorta, Alfonso Amato, Cesare Calvo, Mario Trapassi. La macchina militare con Antonio Lo Nigro e Ignazio Pecoraro.  L’appuntato Bartolotta che doveva essere in ferie era sul marciapiede e giustamente incazzato.

Il signor Stefano Li Sacchi era già operativo a fare le pulizie e stazionava davanti il portone perché poi il consigliere passando, come ogni mattina, gli avrebbe stretto la mano. Scesi dalla blindata, salutai tutti e stavo per leggere il giornale appoggiandomi sul cofano dell’autobomba, senonché l’appuntato Bartolotta mi pregò di andare a prendere la ricetrasmittente che si trovava nell’auto di scorta per posizionarla nella blindata, così feci e fu la mia salvezza.
Tralascio i ricordi di cosa provai subito dopo l’esplosione, perché li ho già raccontati, tuttavia quando ripresi conoscenza mi vennero in testa le parole di mio padre. Il cielo azzurro che vidi alle 7, alle 8:10 era diventato rosso sangue e faceva tanto caldo’.

Nella foto, la strage Chinnici

Redazione