Anche stavolta Tuccio Musumeci ha fatto centro. E si vede. L’interpretazione del padre di Saverio Lamanna (interpretato da Claudio Gioè) nella fiction Màkari (andata in onda su Rai1) è stata apprezzata da tutti. Lo stanno chiamando da ogni parte d’Italia per complimentarsi: il regista Michele Soavi, lo scrittore Gaetano Savatteri (autore dei gialli pubblicati da Sellerio, da cui è stata tratta la serie televisiva), i produttori della Palomar, e poi colleghi di teatro e di cinema, amici, ammiratori.

La recitazione sobria, misurata, a tratti velata da una punta di drammaticità – diversa da quella comica, spumeggiante e irresistibile espressa da sempre sul palcoscenico – è piaciuta. Basta vedere gli ascolti (circa 7 milioni a serata), che ovviamente riguardano l’intero cast (a parte Gioè, ricordiamo fra gli altri Domenico Centamore, Ester Pantano, Filippo Luna, Sergio Vespertino, Antonella Attili, Maribella Piana)

Tuccio Musumeci a 86 anni suonati (ne dimostra una ventina di meno) si mette ancora una volta in discussione. E lo fa con la consueta modestia che lo porta a fermarsi col verduraio, con l’edicolante, col notaio, col magistrato (è grande amico del gip catanese Santino Mirabella, poeta e scrittore) per scambiare le sue proverbiali battute estemporanee, quasi sempre in dialetto.

Tutti gli chiedono della fiction, e a tutti lui risponde entusiasta: “Esperienza indimenticabile”. Vissuta fra le bellezze del Golfo di Cofano, di San Vito lo Capo e della tonnara di Scopello. “Un regista, una produzione, degli attori straordinari”, dice.

Tuccio Musumeci in Pipino il Breve. Sopra: una scena della fiction Màkari assieme a Claudio Gioè

Ma chi è Tuccio Musumeci. L’interprete del “mitico” Pipino il breve con il quale – con lo Stabile di Catania – ha ricevuto ovazioni in tutto il mondo, ci ospita nella sua casa ubicata nel centro storico di Catania. Nello studio, appese alle pareti, le foto di una vita dedicata soprattutto al palcoscenico, e in misura minore al cinema: “Ho perso delle occasioni incredibili”. Due su tutte: In nome della rosa (dal romanzo di Umberto Eco) diretto da Jean-Jacques Annaud, col grande Sean Connery (1986), e La voce della luna di Federico Fellini (1990).

“Come penso che devo prendere l’aereo mi cuminciu a cassariàri, a confondere, e allora preferisco starmene in Sicilia”. Eppure nelle sue parole e nei suoi occhi non traspare mai un pizzico di rimpianto. Lo testimoniano le centinaia di immagini incorniciate, attaccate agli album o distribuite nei cassetti, che lo ritraggono nei panni dei più svariati personaggi delle commedie siciliane e italiane: da San Giovanni Decollato di Nino Martoglio a Cronaca di un uomo di Giuseppe Fava, dal Berretto a sonagli di Pirandello all’Eredità dello zio canonico di Russo Giusti, prodotti dal Teatro Stabile di Catania (per 40 anni, prima del clamoroso divorzio), dal Teatro Biondo di Palermo e, in ultimo, dal Teatro Brancati del capoluogo etneo, di cui è il fondatore e il mattatore.

Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina inseparabili compagni di scena

Alle pareti spiccano anche i dipinti di sua madre e le fotografie che ritraggono i suoi avi, fra cui il ritratto color seppia di un giovane elegante e raffinato: “Era mio padre. Aveva tentato la carriera cinematografica frequentando l’Accademia di Arte drammatica con De Sica. Aveva vinto il concorso Cines riservato agli artisti esordienti e prometteva molto. Poi mio nonno, che a Catania era proprietario di un’industria di conserve alimentari, lo costrinse a tornare. Ma il cinema restò per sempre il suo sogno proibito”.

In questo appartamento antico dove ogni giorno riceve amici, colleghi, registi, giornalisti, parla del presente e anche del passato: i primi passi con Pippo Baudo nella commedia musicale, l’avanspettacolo, i suoi grandi maestri (a cominciare da Turi Ferro), l’esordio cinematografico col Gattopardo di Visconti, gli elogi di Totò, l’incontro con Fellini, i trionfi col Pipino.

Poi la tradizione dei Grasso e dei Musco; l’amore-odio per la sua città, Catania, un filo che non si esaurisce in poche battute. E’ un filo fatto di amarezza, ma anche di ricordi bellissimi. Quando racconta le tappe fondamentali della sua carriera diventa la persona allegra, scoppiettante e vulcanica che solitamente si vede sulle scene. “Sono nato il 20 aprile 1935, sono un tipo camurriusu e triste, anche se non si nota. In famiglia sono sempre preoccupato, ansioso, nervoso. In teatro mi trasformo”.

Tuccio Musumeci, come ha cominciato a fare teatro? “Per la verità dovevo fare il medico, nella famiglia di mia madre erano tutti medici, farmacisti, professori universitari, quindi era normale che anch’io seguissi quelle orme. Dopo la licenza liceale conseguita a Catania, mi iscrissi in medicina a Modena, dove mio nonno insegnava all’Università. Ogni sera mi recavo a teatro. Nel ’54 assistetti alla recita di un gruppo di universitari che aveva inventato il cabaret: Giustino Durante, Dario Fo e Franco Parenti. Persi la testa per il teatro e tornai in Sicilia, dove conobbi uno spilungone entusiasta del palcoscenico. Era Pippo Baudo. ‘Perché non facciamo qualcosa insieme?’. Lasciai perdere l’Università e cominciai a recitare. A casa ci fu l’inferno. Consigli di famiglia, prediche, casini a non finire. Non ci fu verso di farmi cambiare idea. Avevo tutti contro, in testa mia madre: ‘Ma tu capisci, tuo nonno professore universitario, i tuoi zii medici…’. In casa Baudo succedeva la stessa cosa. Ogni sera, verso le undici, telefonava il padre di Pippo per parlare con mia madre. Mio padre non parlava quasi mai: attraverso me, continuava ad inseguire il suo sogno di fare l’attore”.

Il magistrato catanese Santino Mirabella, poeta e scrittore; Pippo Baudo e Tuccio Musumeci

Ha diciannove anni Tuccio Musumeci quando, assieme a Baudo, costituisce una compagnia musicale. Il primo spettacolo si intitola Il ficcanaso, la regia è del giovanissimo Antonello Falqui. “Imitavamo i grandi comici del tempo, Carlo Dapporto, Nino Taranto, Walter Chiari. Esordimmo a Catania in una sala gremita di universitari: fummo sommersi dai pomodori. Girammo l’isola e facemmo la fame. Non avevamo i soldi neanche per un panino. Una sera, non avendo nulla da mangiare, ci ingozzammo di càlia, i ceci abbrustoliti che si vendono nelle feste di paese. Ne mangiammo a sazietà e poi bevemmo tanta acqua fino a spanzarci. Dopo alcune settimane l’impresario si mangiò i pochi incassi e ci lasciò con i debiti”.

A quel punto Baudo decide di continuare a studiare giurisprudenza, mentre Tuccio si aggrega ad una compagnia napoletana di avanspettacolo. “Una grande scuola, dove imparai a recitare a soggetto. Furono anni bellissimi. Feci tutta l’Italia meridionale. Ogni sera i teatri erano pieni di soldati e di studenti che andavano a vedere le gambe delle ballerine. Si iniziava alle tre del pomeriggio con un film, si continuava con l’avanspettacolo, si riprendeva con il cinema. Il film lo vedevo sempre al contrario, da dietro lo schermo. I guadagni erano miseri. Le ballerine, in gran parte napoletane e romane, riuscivano ad arrotondare con le avventure amorose”.

Tuccio Musumeci in Il marchese di Ruvolito di Martoglio

Passa qualche anno. Baudo si laurea, Musumeci torna a fare coppia fissa con lui. Il progetto è quello di andare a Roma per fare televisione. Ma è un progetto che, fino a quando i due recitano in coppia, non si concretizza: “Un giorno si decideva di andare, il giorno dopo si cambiava idea”. Partecipano ad un concorso indetto dalla sede Rai di Palermo, vengono bocciati.

Frattanto a Catania viene fondato l’Ente Teatro di Sicilia, diventato successivamente Teatro Stabile. Ci sono i più grandi attori del teatro siciliano, gli eredi di Angelo Musco e di Giovanni Grasso: Michele Abruzzo, Umberto Spadaro, Turi Ferro, Rosolino Bua, Rosina Anselmi, Turi Pandolfini, Eugenio e Lindoro Colombo, Virginia Balestrieri. Per la prima opera in cartellone, Malìa di Luigi Capuana, Tuccio viene chiamato per una particina. “Lasciai perdere Roma e rimasi a Catania. Pippo partì”.

Passano alcuni anni. Luchino Visconti viene in Sicilia per girare Il gattopardo. Tuccio, assieme a due promettenti attori dello Stabile, Leo Gullotta e Pino Caruso (palermitano ma teatralmente formatosi a Catania), fa parte del cast: “Facemmo il provino e andò bene. La paga era buona, oltre un milione, servì per comprare il brillante alla mia fidanzata. Visconti era un tipo disponibile, simpatico, ma inavvicinabile. Claudia Cardinale, Alain Delon e Paolo Stoppa facevano pesare il loro divismo. Il più simpatico era Burt Lancaster, ogni giorno mangiava con noi e ci raccontava le sue avventure”.

Dopo la parentesi del Gattopardo, Tuccio torna a Catania. Allo Stabile si prova Pirandello, Martoglio, Brancati e De Roberto. Lui carpisce, battuta dopo battuta, i segreti della scena, se ne impadronisce grazie soprattutto a tre grandi attori: “Turi Ferro aveva una sensibilità che oggi non ha nessuno. Michele Abruzzo è stato il più grande Liolà della storia. Umberto Spadaro era considerato il Charlie Chaplin del cinema italiano: avevano dei tempi e delle movenze eccezionali. Ogni giorno mi facevano il lavaggio del cervello: questo mestiere deve nascere dalla sofferenza, dalla fame, dai disagi. La più grande soddisfazione di allora? Quando si rappresentò Il giorno della civetta di Sciascia. Si apriva il sipario ed io facevo una battuta, l’unica di tutto lo spettacolo: al centro del palcoscenico un morto, in piedi il maresciallo dei carabinieri (Michele Abruzzo) ed un testimone, che ero io: ‘Quando ha visto per l’ultima volta il morto?’. ‘Perché, c’è stato un morto?”.

Qualche altro anno di gavetta e per Musumeci arriva la possibilità di mettersi in evidenza. E’ il 1966 quando l’attore catanese gira l’Italia con I Menecmi di Plauto. Nella Compagnia dell’Istituto nazionale del dramma antico (Inda), assieme a Lea Padovani, Arnoldo Foà e Renzo Giovampietro, c’è lui. Lo vede Totò che dice: “Quell’attore ha un grande talento”.

L’anno successivo arriva la consacrazione con lo Stabile di Catania. “Il primo ad accorgersi delle mie qualità fu Romano Bernardi, milanese, allievo di Giorgio Streheler, e regista dello Stabile catanese: mi affidò la parte di protagonista ne L’arte di Giufà di Nino Martoglio, fu un successo”. Nello stesso anno il giornalista e scrittore Pippo Fava scrive il dramma grottesco Cronaca di un uomo. Da quel momento è un susseguirsi di successi, stagione dopo stagione.

Per l’attore si aprono le porte del cinema. Nel corso degli anni gira trenta film. Ricordiamo Lo voglio maschio di Ugo Saitta, L’adolescente di Alfonso Brescia, perfino un western con gli americani, Acquasanta Joe. “Il cinema l’ho fatto solo per i soldi. Tornai in teatro quando ebbi la percezione che stavo creando un’immagine distorta dei miei personaggi”.

Nell’Ottanta arriva il clamoroso successo con il musical Pipino il breve. “L’opera nacque per caso: all’aeroporto di Roma incontrai il musicista Tony Cucchiara: ‘Da tempo – mi disse – coltivo l’idea di scrivere la storia dei paladini di Francia, vorrei proporla a Garinei e Giovannini’. ‘Aspetta che ne parlo al direttore artistico dello Stabile’. Pochi giorni dopo, su sollecitazione di Mario Giusti, Cucchiara arrivò a Catania, portando una serie di canzoni bellissime, non accompagnate da una sceneggiatura forte. Il testo fu migliorato notevolmente grazie all’ausilio del grande poeta palermitano Renzino Barbera. Cominciammo le prove in un clima di grande scetticismo. Debuttammo a Catania. Durante lo spettacolo gli applausi furono di normale intensità. Alla fine ci fu un’ovazione incredibile. Ci guardammo in faccia e dicemmo: ‘Non abbiamo capito un c…’. Da allora, un trionfo dietro l’altro, tre volte in Italia, poi a Broadway, a Buenos Aires (nove minuti di applausi), in l’Australia… Ancora oggi le richieste sono numerose. Pipino fa parte del repertorio classico del teatro siciliano”.

L’opera di Cucchiara gli riapre le porte del cinema: “Le mie grandi occasioni furono due: la prima con Il nome della rosa, quando il regista mi chiamò per offrirmi una parte; fui costretto a rifiutare perché ero impegnato col Berretto a sonagli. La seconda qualche anno dopo. Fellini mi contattò per farmi fare La voce della luna insieme a Benigni e a Paolo Villaggio. Andai a Roma e trascorsi una giornata indimenticabile. Alle 9 del mattino il regista mi ricevette nel suo studio per parlarmi del film. Alle 12,30 avevo previsto di andare all’aeroporto per tornare a Catania. Uscii dalla sua stanza alle quattro e venti del pomeriggio. Durante quella conversazione scoprimmo un amore in comune, il circo”.

“Mi raccontò i suoi ricordi legati all’infanzia, i retroscena di alcuni film. ‘Peccato che un attore come te sia conosciuto solo in Italia’. Quando mi propose di fare il film gli dissi: ‘Maestro, io devo andare a rappresentare il Pipino in Australia, se comincerà la lavorazione alla fine della tournèe mi ritenga disponibile’. ‘Quando torni dall’Australia?’. ‘Il 9 novembre’. Scrisse l’appunto su una cartolina. Pensai che non avrebbe chiamato. Invece la mattina del 9 novembre telefonò. I miei impegni teatrali intanto si sovrapponevano: dovevo debuttare col San Giovanni decollato. Prendevo tempo. ‘Maestro, come faccio?’. Quell’anno era morto Mario Giusti e all’interno dello Stabile cominciava ad avvertirsi una crisi senza precedenti: ‘Come lascio la compagnia?’. Il San Giovanni era stato venduto in diverse piazze, la mia assenza avrebbe provocato dei notevoli danni finanziari. Dovetti restare a Catania. Lui rimandò ancora il film, mi ritelefonò per sei mesi consecutivi. Ogni volta mi prendeva una cosa nello stomaco: ‘E ora che gli dico?’. Fu un’occasione che persi per amore dello Stabile di Catania, del mio teatro”.

Luciano Mirone