Quando gli immigrati eravamo noi. E partivamo coi bastimenti per arrivare in America, come oggi partono coi barconi dall’Africa per arrivare fin qui. Un libro emozionante di oltre 400 pagine, quello di Salvatore Giuseppe Pomara, un romanzo verista nel vero senso della parola, Acqua verde – come l’acqua che lasciavamo noi, come l’acqua che lasciano loro -, perché vere sono le storie che l’autore racconta, e vero è il parallelismo fra l’approdo dei siciliani a Ellis Island (il luogo che sorge dirimpetto alla Statua della libertà, dove gli emigrati venivano messi in quarantena prima dello smistamento nelle città americane) e l’approdo dei naufraghi immigrati di oggi nelle nostre coste. Storie di disperazione, di paure, di sogni, di speranze, di realizzazioni.

La copertina del libro. Sopra: un gruppo di italiani emigrati in America all’inizio del Novecento

Pagine che descrivono un tempo in cui “eravamo noi a cercare la Merica”, che parlano “di partenze, di distacchi sulle banchine e negli aeroporti, di distanze che si allungano, del tempo che passa, di generazioni che si susseguono, di amori, passioni e affetti che durano, di famiglie patriarcali, di lotte per la sopravvivenza e del sogno americano che si realizza, della Sicilia, dell’America e del sentirsi emigrante tutta la vita”.

Un libro “politico” nell’accezione più pura del termine, perché Pomara non si limita a raccontare, ma lancia un messaggio di solidarietà ai suoi lettori, “perché nessuno abbia a dire non lo sapevo; perché nessuno giri la testa dall’altra parte pensando che nulla accada o che la cosa non lo riguardi; perché nel rispetto delle leggi del paese che lo accoglie, chi fugge da fame, sete e morte non abbia a sentirsi estraneo, che della terra nessuno di noi è padrone, avendola avuta solo in prestito per un tempo stabilito, una stagione o due prima di emigrare” (luciano mirone).

Questo un capitolo del libro:

“Partivano in autunno, come fossero uccelli migratori, ma non cercavano paesi caldi che di caldo ne avevano fin troppo anche in Sicilia. Semplicemente inseguivano una vita possibile sotto altri cieli. 

Erano i viddani di Vallerosa, piccolo centro dell’entroterra siciliano, che andavano a la Merica: a Nuova York,  a Chicago, a Filadelfia e perfino a Novaleanza, come chiamavano New Orleans, la città dove in tanti si diressero attratti dal clima e dalla possibilità di fare i contadini, come avevano sempre fatto.

Lasciavano il paese alla fine di novembre, dopo avere arato e seminato i campi, approfittando dei mesi invernali di forzato riposo per tentare la fortuna dall’altra parte dell’oceano.

Molti non trovarono le condizioni adatte per restare e tornarono indietro.

«L’aria nun mi giuvàu» dicevano per giustificare il rientro forzato agli occhi dei paesani, ma era semplicemente perché non avevano trovato lavoro; l’aria o clima non c’entrava niente.

«Miseria per miseria, meglio quella del nostro paese!»

La maggior parte di quelli che andarono via, però, mise radici nella nuova terra e vi rimase per sempre.

«Cu nesci, arrinesci», chi esce riesce, si continuò a ripetere a Vallerosa. Molti ci credettero e partirono.

Alla fine non ci fu famiglia che non ebbe un parente in un angolo degli Stati Uniti.

Salvatore Giuseppe Pomara, autore di Acqua Verde

Tutto ebbe inizio, quando si sparse la voce fra i contadini e i pastori di Vallerosa che c’era una terra chiamata Merica, ricca e granni centu voti l’Italia, «che potrebbe cambiare la vostra vita da così a così» ripeteva, mentre ruotava la mano in un senso e nell’altro a mostrare prima il dorso e poi il palmo, tale Agostino La Fata, sub agente di un’imprecisata compagnia di navigazione, il quale una mattina di domenica si presentò nella piazza del paese e apparentemente  senza uno scopo preciso si mise a decantare le ricchezze dell’America.

«Se avete anche un po’ di fortuna» insisteva, fissando negli occhi quanti gli si erano stretti attorno, «potete diventare ricchi o almeno avere la possibilità di mettere da parte i soldi necessari per comprarvi un pezzo di terra; e con un pezzo di terra di proprietà pure il re, con rispetto parlando, vi pare porco».

«Quello è il ponte di Brucculinu, questi sono i grattacieli e questo è il bastimento che vi porterà in America!».

Con un dito puntato sul manifesto che un minuto prima aveva attaccato al muro, mostrava orgoglioso, quasi fossero una sua scoperta, le bellezze di New York: «una città, che è il mondo intero!».

Le esclamazioni di meraviglia dei paesani accorsi numerosi non si contavano.

«Mamma mia, che ponte!»

«Impressionante!»

«E da dove lo pigliarono tutto questo ferro!».

«Sotto il mare e sopra il ponte, Vergine Immacolata!»

«E i palazzi, quanto sono alti?»

«Grattacieli li chiamano, perché grattano il cielo con cento mani di ferro e cemento» precisava La Fata.

«Ma unni è sta Merica?» sbottò un tizio, mentre imbambolato fissava le figure che gli ballavano davanti agli occhi.

«Dove si trova l’America? unni persi li scarpi u Signuri, dove perse le scarpe Gesù Cristo, lontano venti, trenta giorni di mare, chi lo sa!».

Salvatore Pomara