Chi si rifiuta di entrare in questo governo non ha capito la gravità della situazione sanitaria ed economica e neanche il compito del governo Draghi nel cercare di affrontare un’emergenza mai così grave dopo gli anni della guerra. Chi dice che non starà nell’esecutivo assieme a quello o a quell’altro perché “incompatibile” con le proprie idee, ragiona come se vivesse ancora nel periodo pre-pandemico.

Ha senso, oggi, dire “Io con Berlusconi mai”, “Io coi sovranisti mai”, “Io coi comunisti mai”? In periodo di normalità sarebbe stato giusto fare i distinguo e rifiutare, da parte del M5S, un governo col Cavaliere, da parte di Leu coi sovranisti, da parte di Fratelli d’Italia con la sinistra.

Ma discorsi così – mentre piangiamo i morti, i contagi non calano o calano lievemente, le varianti preoccupano, l’economia è a pezzi e per l’immunità di gregge passeranno ancora molti mesi – hanno senso? Si ha idea della situazione che vive il paese reale? Non è il caso di mettersi umilmente al servizio degli altri per cercare di uscire, tutti insieme, da questo incubo?

Finito tutto, che ognuno faccia la propria politica e la propria battaglia, ma in un momento di guerra crediamo che sia sacrosanto che tutti facciano un passo indietro.

Anche perché Draghi non ci pare che sia stato chiamato per fare chissà quali rivoluzioni. I compiti dell’ex presidente della Banca centrale europea sono essenzialmente due: gestire la pandemia e i 209 miliardi del Recovery, più l’ordinaria amministrazione, oltre probabilmente ad una riforma del Reddito di cittadinanza, che non va abolito, poiché ha dato respiro a tante persone (soprattutto al Sud), ma soltanto riformato, dato che parte di quei soldi è finito nelle mani sbagliate.  

Ecco perché, forse, un governo misto “tecnico-politico”, con personalità di altissimo livello scelte dal presidente incaricato e dai partiti, sarebbe la soluzione più saggia, sia per “aggredire” l’emergenza economica e sanitaria, sia per dialogare in modo costruttivo con i partiti che sostengono il governo.

Ma ad una condizione: che i partiti non tirino troppo la corda. Draghi non è uno di loro, è un “esterno” chiamato a salvare il Paese, di cui si è messo al servizio. Metta lui, piuttosto, dei paletti: dica chiaro di essere disposto a dialogare, ma senza ricatti, senza veti, senza pregiudizi.

Uno dei primi a comprendere tutto questo è stato il segretario della Cgil Maurizio Landini, che fin da subito ha lanciato un ponte fra Draghi e il mondo del lavoro, prescindendo dall’appartenenza.

Poi è stata la volta del Pd, che da quando Zingaretti ne ha preso la guida, ha dimostrato maturità e compattezza. Fino a due anni fa il partito democratico era a pezzi, divorato dai veleni interni e da una politica consociativa (un esempio per tutti la Sicilia, dove aveva stretto alleanze perfino con Cuffaro e con Lombardo, con il beneplacito di Roma, e quando ha governato con Crocetta ha offerto spettacoli indecorosi) che lo ha portato ai minimi storici. Zingaretti non è Moro né Berlinguer, ma ha impresso al partito la linea del buon senso che è servita quando è andato all’esecutivo coi 5Stelle, mettendosi alle spalle le polemiche precedenti. In quel periodo ha dialogato con Conte, con i ministri, i vice ministri e i sottosegretari degli altri partiti senza isterie né colpi di testa. Ha attuato la strategia della sobrietà e del lavoro e si è messo in evidenza per questo, dando un’immagine di equilibrio, di unità e perfino di coerenza. Con questa filosofia non ha avuto indugi nel presentarsi per primo come principale sostenitore di Draghi, facendo passare il messaggio che in momento particolare come questo vanno messe da parte ideologie, rancori e frizioni per il bene supremo del Paese. Vedremo quanto, in futuro, questa strategia conterà per l’elettorato.

Un altro che ha compreso benissimo i principi enunciati da Mattarella è Berlusconi, sia per l’antica amicizia che lo lega all’ex presidente della Bce, sia perché Forza Italia – presente al Parlamento europeo con un partito europeista come il Ppe – , non può dare l’immagine di essere omologo ai sovranisti di casa nostra: ne uscirebbe a pezzi. È lui il vero ago della bilancia del centrodestra italiano. Se Berlusconi non avesse aderito al progetto Draghi, Salvini sarebbe rimasto al suo posto assieme alla Meloni: Sua emittenza preferisce spaccare (almeno momentaneamente) la sua coalizione, che uscirne a pezzi in Europa, e allora aderisce al governo Draghi senza “se e senza ma”, anche lui, ovviamente, “per il bene supremo della Nazione”.

Chi invece fa fatica a capire che il governo Conte è finito e che il governo Draghi sarà “di salute pubblica” è il Movimento 5 Stelle, perfino più dello stesso Conte, che invece ha dimostrato di avere elaborato il lutto fin dal giorno successivo allo sfratto. I motivi sono complessi: i 5S hanno molte anime. C’è gente proveniente da destra, da sinistra, dalla società civile e addirittura dall’astensionismo. Il collante che ha unito questo popolo eterogeneo è stata la sfiducia e il disgusto verso la politica tradizionale. Ma anche certi principi come la questione morale, la lotta alla mafia e a un modo nuovo di fare politica che non può prescindere dall’ambiente, tema al quale il movimento fondato da Grillo – con l’emergenza climatica in atto – è molto sensibile. Questa idiosincrasia verso i partiti tradizionali l’hanno portato – fino a due anni fa – a rifiutare qualsiasi alleanza perfino nei comuni. Il fine era quello di andare al potere da soli, superando il 50 per cento dei consensi. Una strategia pretenziosa, pericolosa (forse inconsapevolmente), ingenua e soprattutto impossibile. Alle ultime nazionali lo hanno capito (quando il popolo italiano li ha sommersi col 37 per cento di voti) e finalmente si sono alleati, hanno dialogato e hanno pure sofferto, comprendendo probabilmente che la democrazia è bella anche per questo. Inizialmente hanno offerto – per senso dello Stato, poiché un governo bisognava comunque farlo – l’alleanza al Pd, che ha rifiutato per le contrapposizioni degli anni precedenti, poi alla Lega che ha risposto positivamente. I 5S si sono accorti di avere un’anima fondamentalmente di sinistra (ma questo è un giudizio del tutto soggettivo), forse più dello stesso Pd che aveva mortificato la questione morale, la lotta alla mafia e la politica sul clima, quando Salvini ha mostrato il suo vero volto con gli immigrati: lì c’è stata la rottura, quello è stato il momento in cui il movimento ha compreso di essere incompatibile con questa destra. E dopo si è alleato col Pd (che nel aveva meditato), con Leu e con Italia viva, con i risultati (secondo noi buoni) che ne sono conseguiti. Tutto questo sarebbe stato impossibile senza “l’uomo nuovo” del M5S: Giuseppe Conte. È stato lui il il punto di equilibrio fra le varie anime della coalizione. Conte ha smussato gli angoli, ha limato incomprensioni, ha dimostrato grandi capacità di mediazione nell’ascoltare pazientemente tutti e nel trovare la sintesi. Chi l’avrebbe detto che una pattuglia di “politici inesperti” (come vengono definiti da una parte della stampa nazionale) avrebbe messo l’Italia al centro delle attenzioni e del rispetto (come poche volte era accaduto) di tutti i Paesi europei? Chi l’avrebbe detto che Conte sarebbe riuscito a portare a casa 209 miliardi del Recovery fund (la cifra più alta riservata a una Nazione europea)? Nessuno! Eppure è successo. Questo avrebbe fatto volare la coalizione fino alle prossime elezioni, mettendo in ombra il cespuglio Italia viva. La caduta del governo ad opera di Renzi è stato trauma per i pentastellati, reso ancor più grave dall’idea di dover governare – adesso – con Berlusconi, con Renzi e con Salvini. No secco di Grillo a Draghi nelle prime ore, poi diventato un ni, e oggi vedremo come finirà (probabilmente un sì, con la possibile rottura dell’ala più oltranzista capeggiata da Di Battista). Il sì – se dovesse essere tale – , a nostro avviso, sarebbe dovuto arrivare immediatamente, come ha fatto il Pd, in modo da dare l’immagine di una coalizione unita anche con Draghi. Ma evidentemente le dinamiche del M5S sono più articolate di quanto non lo siano quelle di altre formazioni politiche.

Problematiche difficili da superare anche per la Lega, che in un governo Draghi dovrà stare insieme ai “nemici” Pd e 5S. Troppe le tentazioni di Salvini di dire no. Intanto per non trovarsi spiazzato a destra con la Meloni, che ha deciso “coerentemente” di non aderire al governo Draghi, e poi per evitare problemi col suo elettorato che vede l’Europa come il fumo negli occhi. Ma come fa Salvini a rifiutare di entrare nel nuovo governo se siamo in piena pandemia, come fa a rifiutare se Berlusconi ha aderito entusiasticamente, e se Draghi fa parte di un mondo (quello delle banche) che molti imprenditori del Nord guardano con favore e se la prospettiva è quella di ritrovarsi emarginato in Parlamento?

Chi ha deciso di non far parte dell’esecutivo Draghi – come detto – è Fratelli d’Italia, che ritiene incoerente stare negli stessi banchi della sinistra, e Leu per motivi speculari (ma contrari) a quelli addotti dalla Meloni.

In ultimo Matteo Renzi, con Italia viva. Che ovviamente guarda con favore il nuovo, possibile governo, dopo avere sabotato il vecchio con una crisi al buio, non considerato da lui all’altezza del compito intrapreso. Anzi, lui stesso dice di esserne stato il fautore, magari per passare all’incasso quando Draghi concluderà, con successo, il suo mandato. Sì, perché una cosa appare certa fin da ora: che il mandato di sconfiggere il virus e di elaborare il Recovery plan in maniera efficace sarà un successo. Che Renzi cavalcherà. Spetterà agli elettori distinguere l’oro dalle tacche di ottone.  Ci sarà tempo.

Luciano Mirone