Gli idoli paragonati a Dio vengono emulati? Un comune mortale può ridimensionare una emozione per quel “dio” che fa uso di stupefacenti? Nei giorni scorsi – dopo aver saputo della morte di Diego Armando Maradona – abbiamo posto queste domande attraverso un articolo sul campione argentino, che ha suscitato riflessioni ma anche improperi. Titolo del pezzo: “Maradona il più grande, ma non ci ha mai emozionati” (precisiamo che la prima persona plurale è stata utilizzata per deformazione nell’uso del “noi”, non  per l’esigenza di accomunare tutti nello stesso pensiero. Ma questo non è il motivo principale delle polemiche).

Il pomo della discordia sta in questa frase (“Non ci ha mai emozionati”) che ha suscitato il ragionamento di alcuni e l’indignazione di altri.

Fra i primi, spicca per arguzia il commento di un amico di antica data, Salvatore Marino: “Di fronte alla Cappella Sistina o alla Pietà di Michelangelo dovrei sforzarmi di non emozionarmi? Perché? Perché Michelangelo faceva una delle cose più riprovevoli: amava unirsi con i ragazzini e la Chiesa, davanti al suo immenso genio, chiudeva entrambi gli occhi? Miti leggendari del Jazz morirono devastati da droghe, alcool ed eccessi di ogni tipo. Eppure non emozionarsi davanti ai loro pezzi più celebri sarebbe una ridicola forma di violenza verso se stessi”.

E allora perché quel titolo? Per ingenerosità nei confronti di un artista del calcio che contemporaneamente è stato altruista con i disperati, ha fatto beneficenza in silenzio, ha riscattato due popoli (quello argentino e quello napoletano) dai mille problemi che li affliggono? Oppure per mancanza di delicatezza verso un uomo che ha mostrato tante vulnerabilità ma anche tanta bellezza raccontata mirabilmente dal film di Kusturika, dai libri di Eduardo Galeano e di Luis Sepulveda, dai reportage di Gianni Minà?

È ovvio che la narrazione dolce, tenera e trasgressiva di Diego affascina: quando parla della sua vita in baracca, quando si sofferma sulla sua amicizia con Fidel Castro e col Papa, quando vedi quei gol che sembrano davvero ispirati da Dio.

E allora perché quel titolo? Perché secondo noi bisogna andare “oltre” la narrazione ed allungare lo sguardo, scrutando dentro di noi: non solo col sentimento ma anche con la ragione, anche a costo di essere duri. Ecco perché un titolo, a volte, “deve” essere un po’ provocatorio e un po’ spietato, senza togliere nulla all’umanità.  

Per comprenderlo consentiteci di spiegare qual è – per noi – il significato delle parole “emozione”, “competizione”, “lealtà” e “sport”.  

L’emozione è uno stato d’animo che viviamo spesso (è plurale maiestatis, si badi bene, non pretesa di coinvolgere tutti nel pensiero unico), ma a condizione che esso sia pervaso dall’autenticità. Nel momento in cui manca (o manca in parte) questo elemento, scatta dentro di noi qualcosa che ridimensiona il sentimento. Non possiamo farci niente. 

Per Pantani abbiamo avuto la stessa reazione: eravamo suoi grandi tifosi, ci esaltavamo quando affrontava quelle salite leggendarie, venivamo presi dalla commozione quando riprendeva un avversario in vantaggio di diversi minuti, le sue imprese diventavano una metafora sulle difficoltà della vita, ma quando si è saputa la notizia della sua positività al doping, nel nostro animo è successa qualcosa. Abbiamo provato una gran pena quando è morto per le traversie dell’uomo, ma il mito si era infranto.

E però spiegare il concetto di “emozione” non basta se non lo associamo al concetto di “sport”. Dal tempo degli antichi greci – che lo inventarono –  lo sport è sinonimo di “competizione” e di “lealtà”, due concetti indissolubilmente legati da cui bisogna partire per capire il senso della cultura sportiva. Si può essere sportivi se non si è leali? Secondo noi no.

E’ vero che Maradona (come Pantani) è stato vittima di un gioco più grande di lui (la notorietà, la pressione dei tifosi, le prestazioni, lo stress, la camorra), ma vogliamo cercare di vedere gli effetti “oggettivi” che quel “gioco” potrebbe aver provocato?

Maradona è stato (ed è) un idolo planetario. Entrava (ed entra) in tutte le case del mondo: basti pensare che perfino in un villaggio sperduto dell’Africa, dove mancava anche la televisione, i bambini indossavano la maglietta del Napoli col numero 10. E quando il giornalista ha chiesto a uno di loro, “ma tu hai mai visto giocare Maradona?”, lui ha candidamente risposto: “No, ma è il mio mito”.

Maradona è la divinità dei giorni nostri, ma è stato un esempio soprattutto per i giovani? Ha contribuito a sdoganare la cultura della cocaina?

Obiezione: ma Maradona non ha mai sbandierato l’uso della cocaina. Era un fatto privato e quindi non doveva rendere conto a nessuno. Giusto, però – ripetiamo – bisogna ragionare sugli effetti oggettivi.

Usciamo per un attimo dai nostri panni e mettiamoci nei panni di un ragazzino che ha sognato di diventare Maradona. Se certe emulazioni si sono verificate per personaggi infinitamente meno famosi (ricordate quando Berlusconi indossò la bandana e il giorno dopo in spiaggia un sacco di gente portava la bandana?), perché non ritenere che si siano verificate con Diego?

Altra obiezione: ma solo Maradona ha fatto uso di stupefacenti? No! Ci sono (e ci sono state) tantissime personalità del mondo dell’arte, della cultura, della politica, della moda e dello spettacolo che fanno (e hanno fatto) uso di cocaina. Ma i proseliti che hanno fanno loro sono paragonabili a quelli di un “dio”? Anche perché, quel “dio”, certi messaggi subliminali li ha veicolati, suo malgrado, con un colpo di tacco, con un tackle, con un gol in mezza rovesciata.

La cocaina migliora le prestazioni sportive? Se la risposta è no, Maradona non ha assolutamente infranto i principi della cultura sportiva. Se la risposta è sì, li ha mandati in frantumi. E lo diciamo col nodo in gola di chi prova dolore a ragionare sulla bellissima favola dell’eroe povero che sfida i mostri della ricchezza e vince.

Però temiamo che una parte della nostra società – anche quella che non ha mai fatto uso di droga – rifiuti di porsi queste domande, e perché non vuole interrompere il sogno, e perché si è assuefatta all’uso esteso della droga. Ormai consideriamo “normale” che l’acqua del Tevere, dove sboccano le fogne di Roma (analizzata qualche anno fa) sia zeppa di cocaina, consideriamo “normali” i festini a base di coca, consideriamo “normali” i pusher davanti alle scuole dei nostri figli.

Ci indigniamo contro il Totò Riina che mette le bombe, ma lasciamo perdere il Totò Riina che accumula ingenti capitali con la droga, senza renderci conto che la droga fa più vittime degli attentati. Abbiamo abdicato. Perché in fin dei conti il fenomeno non ci tocca da vicino. Fino a quando…

Fino a quando… alcuni mesi muore un mio grande amico per gli effetti devastanti che la droga ha avuto nel suo organismo e nella sua testa. Nessuno ha idea di che persona splendida fosse a sedici anni, nessuno ha idea che persona fosse diventata dopo che ha cominciato a farsi. Questa cosa ci ha sconvolti.

Come avvenne tanti anni fa a Peppino Impastato. Secondo voi perché è stato ucciso? Sbeffeggiava Badalamenti dicendogli “specialista in lupara e traffico d’eroina”, cioè aveva associato Cosa nostra con la droga e ne aveva fatto una battaglia.  

Lui lo aveva capito. E noi? 

Nella foto: Diego Armando Maradona

Luciano Mirone