Fu un pastore a ritrovarli abbracciati sotto un albero di limoni quel 31 ottobre del 1980, in un agrumeto di Giarre, a ridosso dalle case popolari e a poca distanza dalla caserma dei carabinieri. Giorgio Agatino Giammona e Antonino Galatola erano morti da quindici giorni, i loro corpi erano in evidente stato di decomposizione e il puzzo insopportabile della putrefazione si espandeva nella campagna e nelle prime case. Eppure per due settimane quei due cadaveri non li aveva visti nessuno, né gli abitanti del rione, né i familiari, né i carabinieri che nei giorni precedenti avevano setacciato palmo a palmo quelle zone anche coi cani poliziotto.

Il reportage del Giornale del Sud diretto da Giuseppe Fava sui ragazzi di Giarre. Le firme dei servizi sono di Claudio Fava e Riccardo Orioles

Giorgio e Antonino erano gay, 25 anni il primo, 15 il secondo. Figlio di un facoltoso commerciante di strumenti musicali, Giorgio aveva qualche precedente penale per piccoli furti. Antonino invece, figlio di un venditore ambulante di giocattoli, era considerato un bravo ragazzo. Da diversi mesi avevano iniziato una relazione. Lo avevano fatto in assoluta libertà, alla luce del sole, indifferenti degli sfottò che giravano di bocca in bocca mentre, mano nella mano, passeggiavano per le vie del centro. «Arrivaru ‘i ziti». Sono arrivati i fidanzati. «Talìa ‘i puppi’». Guarda i froci. E giù un coro di risate che echeggiavano fra i balconi barocchi di questo paese di trentamila abitanti a venti chilometri da Catania.

Dopo il ritrovamento dei cadaveri, i carabinieri imboccarono subito la pista del suicidio: Antonino avrebbe sparato a Giorgio e poi si sarebbe puntato la pistola alla tempia togliendosi la vita. Anche perché accanto ai corpi fu ritrovata una lettera – un classico in Sicilia – che non lasciava spazio a equivoci: «La nostra vita era legata alle dicerie della gente… Non possiamo più vivere». La coppia dunque si sarebbe «suicidata» per disperazione, stanca delle continue vessazioni cui veniva sottoposta in un paese pieno di pregiudizi.

L’ipotesi investigativa durò solo lo spazio di qualche ora perché nel frattempo nel luogo del «suicidio» era stata trovata una rivoltella coperta da un pugno di terra, per giunta con la sicura abbassata. E allora i conti cominciarono a non tornare. Com’è possibile abbassare la sicura di un’arma, fare alcuni centimetri, sotterrare la pistola dopo essersi fatto saltare il cervello?

L’articolo uscito sul Corriere della Sera che allora parla del “caso di Giarre”

Il giorno dopo cambiò tutto, la dinamica, il movente, lo scenario. Non più suicidio ma omicidio. Improvvisamente uscì fuori «l’assassino». Mica un delinquente incallito o un uomo adulto e vaccinato, ma un bambino di 12 anni, Francesco Messina, nipote di una delle due vittime (Antonino Galatola), un semplicione forse un po’ ritardato, il volto lentigginoso e paffuto, che dall’alba al tramonto aiutava i nonni in campagna con i quali viveva da molti anni, e ai quali, secondo i parenti, voleva più bene degli stessi genitori. Ai carabinieri di Giarre confessò di essere stato lui l’uccisore dei due omosessuali: «Mi hanno detto di premere il grilletto e l’ho fatto. O ci ammazzi con questa pistola o noi uccidiamo te».

I conti non tornarono neanche in merito ai colpi sparati. Prima si disse che erano stati sette, poi tre: due avevano centrato la testa di Giorgio, uno quella di Antonino. La pistola (una calibro 7,65), secondo la versione del bambino, gliel’aveva data lo stesso zio quindicenne che, assieme all’amico, lo aveva istigato a commettere il duplice delitto.

Ma lo zio Antonino, secondo un giudizio unanime, era uno che un’arma non l’aveva mai vista in vita sua. E allora quella pistola da dove era saltata fuori? Mistero. «Prima che io li uccidessi», disse Francesco Messina, «Giorgio e lo zio mi avevano regalato un orologio».

Per i carabinieri e il pretore non c’erano più dubbi: erano stati scoperti l’assassino, il movente e l’arma del delitto. Caso chiuso. Fine della storia. Ma solo per un giorno. Poi Francesco, avvicinato da un giornalista del quotidiano “L’Ora” di Palermo, raccontò alcuni inquietanti retroscena: «Non è vero, non li ho uccisi io. Ai carabinieri ho detto così perché mi avevano dato schiaffi, mi sono fatto pure la pipì addosso e poi loro dicevano che se non confessavo arrestavano il nonno Francesco».

Un altro quotidiano che nel 1980 si occupa del caso

A quel punto scoppiò il finimondo. A Giarre arrivarono gli inviati dei giornali nazionali che trovarono un paese diviso in due: da un lato i carabinieri e il pretore che non ritennero di seguire altre piste, dall’altro la città, la stessa città che fino a pochi giorni prima rideva al passaggio dei «puppi» e che adesso non credeva alla tesi del «baby killer».

Perfino i quotidiani tradizionalmente più moderati come “Avvenire”, “Il Messaggero”, “Il Piccolo”, “La Sicilia” attaccarono gli inquirenti per quell’inchiesta «fatta male» che «potrebbe segnare per sempre la vita di un bambino di 12 anni». La stessa posizione fu assunta dall’allora sindaco Nello Cantarella: «Io non credo assolutamente che un bambino di 12 anni abbia potuto sparare a freddo, uccidere due ragazzi senza avere nessuna reazione visibile per quindici lunghissimi giorni. Questo farebbe saltare tutte le regole della psicologia. E io, se mi permettete, sono un medico e capisco di queste cose».

Il quotidiano “La Sicilia” avanzò tre ipotesi: «1) È stato Franco a premere il grilletto della pistola; 2) Il dodicenne cui si addebita il duplice omicidio fu presente all’“esecuzione”, anche se non fu lui a portarla materialmente a compimento. In tal caso egli è ora spinto a tacere il nome del vero killer per paura di chissà quale rappresaglia; 3) Egli non fu nemmeno nella zona teatro del delitto. Ed è stato costretto ad accollarsi tutto (perché minorenne e non imputabile) da chi gli ha imposto di recitare a memoria un “copione” che gli ha fatto ripetere chissà quante volte. Tant’è vero che il fanciullo ripete pappagallescamente ciò che fece nel pomeriggio di quel tragico giorno».

I cronisti non si fidarono della tesi ufficiale e vollero scavare a fondo, parlando con i parenti di Francesco: «Il giorno del delitto il bambino è stato tutto il tempo con noi. L’assassino non è stato lui… Nei giorni successivi il ragazzo è stato tranquillo, ha lavorato e ha giocato come sempre. Vi pare il comportamento di uno che uccide? I carabinieri cercavano un colpevole e lo hanno trovato in Franco».

Ma fra le righe dei giornali emergevano altri particolari stranissimi: per esempio la possibilità che Giorgio e Antonino, uccisi in un altro luogo, fossero stati portati in quel posto (dove solitamente si appartavano) per accreditare l’ipotesi del suicidio o, in alternativa, del suicidio-omicidio a opera del «baby killer». Anche perché era veramente strano che per quindici giorni, con il fetore emanato dai due cadaveri, nessuno si fosse accorto di loro.

L’inchiesta di Repubblica 

Ma uccisi da chi e perché? Raimondo Franchetti del “Messaggero” parlò addirittura di «certe ambigue familiarità di Giorgio Agatino Giammona con i carabinieri, e di certe sue propensioni al ricatto». Il giornalista dunque inserì la figura di uno degli uccisi (già conosciuta dall’Arma locale per via di quei piccoli precedenti penali) in un torbido contesto di «ricatti» e di «ambigue familiarità» con i carabinieri. Ricatti nei confronti di chi? Ambigue familiarità con quali strati dell’Arma? Una cortina fumogena annebbiò ogni cosa, senza che si venisse a capo di nulla. Soprattutto quando qualcuno sparse la voce di strani droga-party cui avrebbero partecipato i due uccisi, e addirittura il piccolo Francesco, prima della macabra esecuzione.

«Il festino particolare», scrisse “Paese sera”, «appare un tentativo perbenista di chi vuole infangare la memoria dei due morti». Ad acuire le polemiche fu un’intervista rilasciata in quei giorni a Vanna Barenghi di “Repubblica” dal sostituto procuratore di Catania, Giuseppe Foti, titolare dell’indagine, il quale denunciò che a distanza di sei giorni dal ritrovamento dei cadaveri non aveva ancora ricevuto una sola carta sul caso, nè tanto meno alcuna notizia «che da Giarre avrebbero dovuto darmi». Alla giornalista confidò di non credere alla versione ufficiale: «Direi che sono perplesso, e molto. I carabinieri si affannano tanto a dire che il caso è risolto. E questo mi preoccupa. Io sono portato a pensare che quei riscontri “obiettivi” di cui parlano possano essere messi in discussione». E il magistrato li mise in discussione in questo modo: «Mi sembra sbagliato aver ristretto le indagini al bambino. Perché, per esempio, non si interrogano i congiunti? Un fatto di omosessualità, qui in Sicilia, è qualcosa di tremendo. Perché escludere che un parente abbia potuto seguire i due ragazzi e ucciderli?». Quindi una frase inequivocabile: «Una esecuzione! È solo un’ipotesi. Ma perché non indagare in questo senso?». Solo ingenue congetture, quelle del magistrato, dato che il fascicolo non era ancora arrivato in Procura, o un ragionamento che scaturiva da notizie «ufficiose», magari sussurrate da fonti autorevoli? Possibile che Foti non avesse calcolato le conseguenze di quelle parole? Parole che cominciarono a pesare come macigni quando indirettamente lui stesso accusò i carabinieri di avere estorto la confessione del bambino: «Ma certo. Sa come vanno queste cose. “Sparasti tre colpi?”. E lui dice sì. Conosciamo questi trasferimenti di parole».

La replica del pretore di Giarre Antonino Assennato non si fece attendere: «Ma perché Foti parla se non ha ancora visto gli atti? Che cosa ne sa di quello che hanno fatto i carabinieri? Come può dire che non hanno interrogato i parenti?». Già, come? Ma i parenti furono o non furono interrogati? chiese la giornalista. Risposta: «Non dico che l’abbiamo fatto, ma lui, Foti, non può saperlo». Il pretore dunque, seppure a mezze parole, confermò che i familiari di Francesco Messina non erano stati ascoltati. In ogni caso, secondo il pretore, due particolari «incontrovertibili» dimostravano che il dodicenne era l’assassino: la lettera ritrovata accanto ai cadaveri e la confessione del bambino. «Cosa si deve cercare ancora?». Infatti non si cercò più niente. Il fascicolo arrivò a Catania e Catania stranamente archiviò. A uccidere ufficialmente Giorgio Agatino Giammona e Antonino Galatola fu Francesco Messina che però, in quanto minorenne, non era perseguibile dalla legge.

Sulla storia calò l’oblio. Soltanto il mondo omosessuale fu scosso da un sussulto di indignazione. Tanto che un mese dopo a Palermo fu fondata la prima sede dell’Arcigay, cui fecero seguito quella nazionale di Bologna, di Milano, di Roma e di altre città italiane. Fino a quando, nel 2005, Franco Grillini, leader del movimento gay, incontra lo scrittore catanese Riccardo Di Salvo, insegnante di italiano e storia, al quale propone di scrivere un libro: «Sarebbe bello che si ricostruisse la storia dei due ragazzi di Giarre per lasciare la memoria di questo sacrificio alle nuove generazioni».

Riccardo si mette al lavoro assieme al collega Antonio Eredia, cerca i giornali del tempo, parla con alcuni conoscenti di Giorgio Agatino Giammona e di Antonino Galatola, e in trenta giorni scrive “Per non dimenticare mai” (Aletti editore), un romanzo che ripercorre la vicenda umana della coppia assassinata. «Era una storia che conoscevo e dalla quale all’epoca ero rimasto molto scosso», dice Di Salvo. «Anche perché a quel tempo, pur essendo felicemente sposato e con una figlia, cominciavo ad avere i primi sentori della mia omosessualità».

«A Catania ho trovato pochissimi documenti, mi sono rivolto all’Arcigay nazionale, all’associazione Sandro Penna di Torino, e a Pride, una delle riviste più importanti del mondo omosessuale. Fortunatamente ho incontrato dei colleghi che a quel tempo insegnavano a Giarre e che conoscevano i ragazzi. Mi hanno raccontato delle cose allucinanti: il luogo dove furono trovati Giorgio e Antonino (nel romanzo Alfio e Michele) in questi venticinque anni ha subito una incredibile cementificazione, l’albero sotto il quale i due furono trovati morti è stato incenerito da un fulmine. L’assassino ufficiale oggi ha problemi mentali e vive in condizioni di degrado. A mio parere non fu lui l’autore del duplice omicidio: un ragazzino non avrebbe potuto sparare con una pistola 7,65. Secondo le ipotesi fatte da esperti, un braccio così esile non avrebbe potuto sopportare i forti contraccolpi di un’arma di quel calibro». Cosa ti ha colpito di questa storia? «Soprattutto la reazione della società di allora: non ci fu alcuna pietà nei confronti di questi due giovani che avevano manifestato il loro amore e il desiderio di viverlo. Mi ha colpito l’indifferenza, l’ipocrisia, la cattiveria, atteggiamenti che uccidono l’essere umano. Ho scritto questo libro per evitare che casi del genere abbiano a ripetersi. Ancora oggi sono tanti i pregiudizi contro gli omosessuali». Secondo te chi è stato l’assassino? «Il sostituto procuratore Giuseppe Foti parlò chiaramente di un’esecuzione. Un’esecuzione organizzata da chi? È questo il punto oscuro sul quale non si è fatta luce. Qualcuno ha parlato di certi ambienti collegati da un vincolo di parentela con una delle due famiglie. La verità è che questi due ragazzi erano scomodi alle famiglie, molto scomodi per lo scandalo che suscitavano in paese». Il libro di Di Salvo e di Eredia scava nella vita di questi due «pionieri del coraggio e dell’ orgoglio omosessuale, che allora dovettero affrontare una vita piena di ostacoli e di difficoltà». «Basti pensare», seguita Riccardo, «che nella famiglia di Antonino c’ erano dei forti attriti causati dall’ostilità nell’accettare questa situazione e dal fatto di essere oggetto della derisione di tutto il paese. Basti pensare che il padre di Giorgio mandò il figlio fuori dalla Sicilia per allontanarlo dal paese. Poco tempo dopo lui tornò a Giarre e riprese la storia d’amore con Antonino. Una storia bellissima perché vissuta con grande libertà, una storia in cui si coglie il coraggio di sfidare l’ipocrisia e il bigottismo».

Luciano Mirone