Una piazza, una chiesa, una strada, diverse persone – alcune nella via polverosa, altre sedute sui gradini della chiesa – che guardano l’obiettivo che immortala questa scena dall’alto. In primo piano, un giovane col vestito elegante e il fazzoletto nel taschino. Gli anni Trenta del secolo scorso a Belpasso, circa venti chilometri da Catania. La piazza del quartiere Borrello, la chiesa Maria Santissima della Guardia, la via Vittorio Emanuele che a un certo punto incontra la strada per Nicolosi (a destra) e quella per l’Etna (di fronte), con il vulcano più alto d’Europa innevato, che si intravede sullo sfondo.

Adesso concentriamo lo sguardo su quel giovane elegante. Si chiama Francesco Condorelli, fa il pasticcere da quando aveva otto anni, da qualche tempo ha aperto un bar (che nella foto non si vede, ma si trova a destra) ubicato proprio alla fine di quella via, in un punto strategico che i turisti diretti sull’Etna o a Nicolosi (rinomata località sciistica) devono attraversare.

Il Cavaliere Francesco Condorelli pochi anni prima della sua dipartita (2003) davanti alla pasticceria di Belpasso, con lo sfondo della Chiesa Santissima della Guardia del quartiere di Borrello. Sopra: Condorelli da giovane nello stesso posto

Un locale che all’inizio della sua attività, nelle fredde mattine d’inverno, fa cinque o sei caffè, troppo pochi per una famiglia da mantenere dopo la prematura morte del padre, avvenuta quando Francesco ha sedici anni. Quel bar farà la storia della pasticceria siciliana per i dolci alla mandorla che è capace di inventare, ma in quel momento è tutto in movimento, in fibrillazione, come la montagna quando sta per esplodere dopo che le sue viscere sono state sotto pressione.    

Ingrandiamo il fotogramma. Quel giovane tra i venti e i trent’anni è l’unico, tra gli astanti, a non guardare la macchina fotografica. Mentre gli altri sono in posa – quelli in strada, quelli sul furgone nero, i ragazzini con la coppola seduti sui gradini della chiesa – e vivono l’avvenimento come una grande occasione, facendo capire che l’immagine è costruita, lui se ne sta in disparte, le mani in tasca, il capello impomatato, i baffetti ben curati, dando l’idea che l’immagine è spontanea, come se la macchina fotografica non ci fosse.

In un’epoca in cui le foto sono rarissime (specie quelle realizzate in “ambienti esterni”), lui sembra aver recepito istintivamente la lezione dei grandi maestri del realismo, applicandone le regole nel campo dell’imprenditoria, ancora per lui in fase embrionale.

Non si esclude che Francesco, in quel momento (ma sono pensieri nostri, quindi opinabili), fosse perfettamente consapevole che qualcuno, col treppiedi, stesse realizzando quella foto dal tetto di una casa. Anzi, non si esclude che questa consapevolezza l’avesse dai giorni precedenti. Diversi indizi portano a ritenere che addirittura si fosse messo d’accordo col fotografo. Non lo sappiamo. Ma se è così è un’idea fantastica, sempre se ci caliamo in un’epoca ancora ai primordi in fatto d’immagine.

Continuiamo ad immedesimarci nello spirito del tempo: una foto, allora, è un evento speciale, una cosa fuori dall’ordinario, una festa. Chi sa da tempo che deve essere immortalato, tira fuori il vestito buono, va dal barbiere, si lucida le scarpe. L’abito elegante che quel giorno Condorelli sfoggia è in contrasto con gli indumenti modesti degli altri personaggi. È vero che lui è sempre stato ricercato nel vestire (anche in tempi duri come quelli), ma a noi sembra il segnale di un’immagine “verista” organizzata fin nei minimi particolari. Come se lui, già da quei primi anni di attività, avesse capito che (oltre a curare la buona qualità dei prodotti) fosse necessario pianificare il lancio di un’immagine nuova, rivoluzionaria, universale.

In quel momento non gli interessa far vedere l’insegna del bar (aperto da poco e quindi ancora abbastanza anonimo), vuol far conoscere il “quadro d’insieme” ai turisti: l’Etna con la neve (particolare importantissimo per gli amanti della neve e della montagna), la piazzetta tranquilla del paesino siciliano,  il “giovane imprenditore” che staziona davanti al suo bar. Questo però non basta per lanciare il messaggio. Ci vuole una didascalia che completi il tutto. Quindi immaginiamo pressappoco: Belpasso, Etna, Bar Condorelli, il titolare. E immaginiamo un bigliettino (d’auguri o di semplici saluti) spedito agli indirizzi giusti.

Parole che solleticano la fantasia dei destinatari della foto, perché siamo convinti che Francesco, in quel momento, ha in mente qualcosa che sorprenderà tutti, un progetto che sta a metà tra il sogno e la realtà, un’idea che parte dal paese senza essere “paesana”, dalla provincia senza essere “provinciale”, una sensazione di universalità attraverso una foto “verista”. Un po’ Verga, un po’ Balzac, passando per un grande pioniere del cinema come il concittadino Nino Martoglio – che Condorelli adora – , grande epigono prima a Catania e poi a Roma della grande stagione del “muto”, ancor prima dello straordinario movimento cinematografico che si sarebbe sviluppato negli Stati Uniti con Charlie Chaplin.

Il lettore ci perdoni se forse viaggiamo troppo con la fantasia, ma è un “viaggio”  che trae spunto da molti elementi reali, e anche se non abbiamo certezza che quello che stiamo scrivendo sia reale, sappiamo che questa foto ci dà una rappresentazione straordinaria del “vero”, poiché questa storia inizia proprio nei luoghi che vediamo nell’immagine in bianco e nero di questo straordinario fotografo dell’inizio del secolo scorso: si chiama Marcello Laudani ed è molto amico del “giovane elegante” che vediamo nel ritratto, il quale, alle due e un quarto del pomeriggio (basta ingrandire l’immagine sull’orologio della chiesa), quando tutti sono a casa, si trova lì “per caso”, mentre l’amico Marcello, con la testa sotto il panno nero, l’occhio fisso sul buchetto dell’obiettivo, la mano sinistra che pigia sul pulsante, dice: “Vai Ciccino, non guardare la macchina”.  E lui, “spontaneamente”, guarda la casa alla sua sinistra. Geniale. È l’inizio di un’epoca.

Luciano Mirone