Incontriamo Claudio Fava nella sua segreteria politica di Catania, in una giornata piena di afa e ventiquattro ore dopo dopo l’inquietante segnale ricevuto nel suo ufficio palermitano di presidente della Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana. In questa stanza – sempre chiusa a chiave in sua assenza – qualcuno gli ha fatto trovare una cravatta tagliata in due, mozzata, come si usa fare in Sicilia quando si vuole lanciare un monito, una minaccia.

È un Claudio Fava molto umano quello che incontriamo oggi, dopo alcuni anni, come se le ultime vicende subite – questa e le altre recenti minacce di morte e gli attacchi anche volgari arrivati da certa antimafia, soprattutto sui casi Antoci e Borrometi, di cui si è occupato con la Commissione – gli avessero fatto recuperare quell’afflato che non sempre, secondo alcuni, è presente.

Claudio lo conosco dal 1984 (quindi ci sia consentito un tu molto amicale), quando la mafia uccise suo padre Pippo Fava, ed io decisi di scrivere per I Siciliani, il giornale fondato da lui. Ora, se dei suoi errori possiamo parlare per ore, sulla sua serietà e sulla sua dirittura morale possiamo liquidare l’argomento in un secondo. Ecco perché – in un momento così delicato della sua vita e del suo impegno politico – abbiamo deciso di fargli questa intervista a puntate. Stessa cosa, in verità, avremmo voluto fare con Giuseppe Antoci (che con Fava sta avendo uno scontro durissimo a proposito del fallito attentato che l’ex presidente del Parco dei Nebrodi ha subito nel 2016), il quale, però, ha ritenuto di declinare l’invito, almeno per ora.  

Claudio, qual è il tuo stato d’animo dopo questa intimidazione?

“Non tanto di paura, perché in decenni di impegno giornalistico e istituzionale ti abitui, ma di una certa stanchezza, in quanto scopri che viviamo un tempo in cui accanto agli avversari naturali che sono i facitori di menzogne, e anche i corrotti, i corruttori, i criminali più o meno organizzati, ci sono quelli che stanno dalla tua stessa parte che non gradiscono domande, come se alla fine qualcuno rimpiangesse i tempi in cui l’antimafia, anche sul piano istituzionale, potesse essere una parata di onorificenze, di medaglie, un salotto buono in cui raccontare le storie malinconiche della Sicilia e non un luogo in cui proporre domande e pretendere risposte per ricostruire la storia di questi anni”.

Qual è la dinamica di questa vicenda?

“Si tratta di una cravatta che tengo nel mio ufficio al parlamento regionale (un ufficio che è nella disponibilità mia e del mio collaboratore). Questa cravatta la utilizzo spesso quando arrivo a Palermo con la maglietta o col pullover. Insomma, una cravatta ‘di servizio’. E ieri che ero senza, l’ho presa per indossarla e mi sono accorto che era stata tagliata di netto con un colpo di forbice”.

Dove tieni solitamente la cravatta?

“Appoggiata a vista su un ripiano su cui si accumulano i vari faldoni delle inchieste”.

Un fatto inquietante.

“Beh sì, perché quello dovrebbe essere un ufficio sicuro, impermeabile. L’accesso in questo ammezzato in cui si trova il mio ufficio è chiuso soltanto da una porta a vetri con una serratura normale. Il problema è che il cortile su cui si affaccia la porta a vetri è molto animato: spesso fornitori e servizi interni lo utilizzano, è un porto di mare. In questi giorni ci sono squadre di operai edili che lavorano a tempo pieno. E poi abbiamo anche scoperto (cosa che ignoravamo) che c’è un passaggio che porta a un magazzino a disposizione di tutti: da questo si può accedere sotto le scale del nostro ufficio. In sostanza, qualcuno dall’esterno o dall’interno si è introdotto per conto terzi per lasciare questo segno di attenzione. Quale sia la ragione lo ignoro, poiché abbiamo aperto lavori che procedono in molte direzioni. Mi sembra un gesto abbastanza raffinato. Il questore di Palermo dice che qualcuno vuole lanciarmi un messaggio preciso: ‘Guarda che noi possiamo arrivare perfino nella tua scrivania, sei sotto il nostro sguardo”.

Il lavoro della commissione che presiedi è sotto la lente di ingrandimento di qualcuno, che pare molto infastidito?

“Abbiamo fatto una relazione sul ciclo dei rifiuti che ha preceduto, senza volerlo, gli esiti dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Catania, provando a ricostruire vent’anni di compromissioni fra sistema politico, imprenditoriale, corruttivo e mafioso, con nomi, cognomi, vicende fattuali, percorsi imprenditoriali e carriere. Abbiamo fatto un lavoro sui depistaggi della strage di via D’Amelio. Aperto un’indagine sulla sanità siciliana. Stiamo lavorando sui beni confiscati e sequestrati alle mafie, un settore nel quale emergono storie incredibili: da una parte la legge che dice togliamo i beni alla mafia attraverso lo Stato e la legalità, dall’altro le organizzazioni criminali che restano dentro e attorno a questi beni: insomma un film mai raccontato che vede la complicità di pezzi del sistema economico, imprenditoriale e istituzionale nel favorire Cosa nostra. Stiamo concludendo l’indagine sullo scioglimento del Consiglio comunale di Scicli affrontando argomenti che erano stati messi da parte”.

Cioè?

“E’ uno scioglimento curioso nelle forme e nei tempi, causato da una presunta ‘cupola mafiosa’. Al processo si scopre che si tratta di un gruppo di malviventi di campagna, ma nel frattempo l’Amministrazione comunale che si era opposta al progetto di ampliamento di un impianto per lo smaltimento di rifiuti petroliferi fino a 200mila tonnellate l’anno, è stata mandata a casa e il progetto è passato in pompa magna”.

Poi vi siete occupati del caso Montante, questo imprenditore della provincia di Caltanissetta che, secondo la magistratura, mette su un sistema occulto, definito “simile alla P2”, diventando un “paladino dell’antimafia”, ma in realtà restando amico dei mafiosi.

“Una vicenda che era e resta un pezzo della cronaca politica: un sistema di potere che non si è ancora smontato. Ci sono personaggi di cui ci siamo occupati che attraversano trasversalmente molti casi di cui ci siamo occupati: dal caso Montante al grande business dei rifiuti”.

Quali sono i punti di trasversalità?

“Quelli di creare una sorta di costituzione di fatto, cioè un sistema di norme non scritte, che alla fine vengono realmente applicate. Le regole formali dicono che le decisioni hanno una gerarchia di responsabilità politica, istituzionale e amministrativa; il Sistema Montante – sulla gestione dei rifiuti, per esempio – ci dice che le scelte vengono fatte altrove secondo altri criteri, istruite da altri personaggi. Poi spesso la politica è chiamata ad avere una funzione puramente notarile. Questo metodo – la costruzione di governi paralleli che gestiscono un potere reale, che ha di fatto soppiantato il sistema delle regole – è quello attraverso il quale la Sicilia è stata governata e saccheggiata almeno negli ultimi 20 anni”.

Questo fatto di subire il “fuoco amico” anche quando si propongono delle domande o dei dubbi, ti fa sentire solo?

“A volte sì, ma fa parte del gioco. Una delle cose che ho cominciato a sentire devastante nel lavoro che facciamo è questo vittimismo che diventa una specie di abito della festa: poveri noi, povere vittime, il rischio, la vita blindata, la fatica, la paura, le minacce, il percorrere le strade e i salotti d’Italia a raccontare tutto questo. Io sono stufo! Culturalmente, emotivamente e umanamente. Perché la considero una liturgia ridicola e furba. Mi trovo sotto scorta da tantissimi anni, mai per minacce mandate a dire, ma sempre perché si è scoperto, per tempo, progetti di attentati contro di me. L’ultima cosa al mondo che vorrei fare è andare in giro a raccontare la mia storia. Però mi rendo conto che questo diventa un modo di rappresentare l’antimafia. Sono stufo persino della parola ‘antimafia’. Noi stiamo cercando di costruire atti, fatti, processi, percorsi istituzionali per arrivare alla verità della storia, al tessuto delle responsabilità, non quelle penalmente rilevanti, ma quelle istituzionalmente e moralmente rilevanti. Questo non so se è ‘anti’ qualcosa. So però che la parola ‘antimafia’ è diventata una specie di insegna luminosa un po’ pop e molto rutilante dietro la quale spesso non riesci a vedere cosa ci sia”.

Cos’è la memoria?

“Una cosa preziosa, che non va nutrita di liturgie, di commemorazioni e di ritualità. Un affare serio. Se vuoi fare memoria su Falcone e su Borsellino, devi a mio avviso cercare di capire cosa sia successo in questo Paese, quali sono state le dinamiche malate del potere, quali sono stati i fili della complicità che hanno mantenuto questo clima di impunità per decenni. Non mi interessa commemorare mio padre portando i fiori davanti alla lapide una volta l’anno. Lo faccio tutti i giorni attraverso il mio lavoro. Il dolore è una questione privata, la memoria una questione pubblica, condivisa e trasversale nel tempo. Se riuscissimo finalmente a dare sepoltura ai nostri morti, senza tirarli per la giacca ogni giorno, credo che faremmo cosa utile a loro, ce lo chiederebbero se ci fossero”.

Luciano Mirone

1^ puntata. Continua.