“Nel 2012, all’apice dello scontro tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo, all’allora procuratore aggiunto del capoluogo siciliano arrivò una proposta: creare un contatto con il Colle per risolvere ‘questa situazione’. Questa situazione era il conflitto d’attribuzione di poteri sollevato dall’allora presidente della Repubblica nei confronti dell’ufficio inquirente palermitano, che all’epoca aveva appena chiuso le indagini sulla Trattativa Stato-mafia. Un’interlocuzione assolutamente anomala e per la quale il Quirinale aveva individuato un ambasciatore: Luca Palamara. A raccontarlo è chi all’epoca era uno dei magistrati simbolo della procura di Palermo: Nino Di Matteo“. Un retroscena pubblicato oggi dal Fatto quotidiano, che lancia molti dubbi sulle circostanze descritte e sui personaggi evocati dall’ex pm del processo Trattativa, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura, chiamato in audizione dalla Commissione parlamentare antimafia.

“Volevano fare una trattativa sulla trattativa” – dice il giornale diretto da Marco Travaglio riportando le dichiarazioni di Di Matteo – .“Se non ricordo male a un certo punto nel periodo più aspro della polemica dovuta al conflitto di attribuzioni, il dottor Ingroia, che era ancora un magistrato della procura di Palermo e quindi conduceva le indagini con noi, disse a me e all’allora procuratore Messineo che a Roma aveva incontrato un direttore di un noto quotidiano, che gli aveva detto che dal Quirinale volevano sapere se c’era la possibilità di un qualche contatto con la procura di Palermo per risolvere questa situazione e che in quel caso il punto di collegamento poteva essere sperimentato dal dottor Palamara“.

 “Io – dice sempre l’ex pm – pensavo che Antonio scherzasse, sia io, sia Messineo, e Ingroia era d’accordo, abbiamo detto: ma stiamo scherzando, questi vogliono fare una trattativa sulla trattativa, ma questa fu una battuta. Fu una cosa estemporanea, ricordo che fece il nome come possibile mediatore di Palamara”.

A Palazzo San Macuto, Di Matteo racconta tanti altri fatti, tanti altri collegamenti inediti – che per completezza di informazione invitiamo a leggere sul Fatto quotidiano – da lasciare a bocca aperta. Quello che ci interessa sapere – dato che ce ne occupiamo da tanti anni – è se questi fatti hanno una correlazione con i contenuti dell’intervista che l’ex pm Antonio Ingroia (oggi avvocato), dimessosi dalla magistratura “per i tanti ostacoli creati dai vertici delle istituzioni”, come ha sempre dichiarato, ha rilasciato nei giorni scorsi a questo giornale in merito al “contesto” che vede Palamara al centro dei rapporti fra magistratura e politica.

Immaginiamo un grafico. Al centro Palamara, e poi tante freccine che portano ai nomi di Napolitano, di Luca Lotti (uomo di Matteo Renzi), di Cosimo Ferri, di altri politici e di una pletora di magistrati che chiedono favori di ogni tipo (trasferimenti, avanzamenti di carriera, ecc.).

Dalla testimonianza di Di Matteo emerge un quadro inquietante di stranissimi rapporti, una situazione antitetica con l’autonomia della magistratura prevista dalla Costituzione italiana. Invece, dalle dichiarazioni dell’ex pm del processo Trattativa, emerge un nesso fortissimo fra poteri dello Stato.

Dalla lettura di queste ulteriori novità, scaturisce soprattutto una domanda: fino a che punto certe inchieste portate avanti dai magistrati di cui sopra (i cui nomi sono emersi dall’inchiesta di Perugia) sono andate avanti fino in fondo? È presto per dirlo, dato che l’indagine è ancora all’inizio, ma Di Matteo ha parlato dell’avversione di Palamara verso i magistrati che hanno promosso l’indagine sulla Trattativa Stato-mafia.

In verità – in quel grafico immaginario – non abbiamo collocato il nome di Napolitano al di sopra di quello di Palamara, solo perché la figura dell’ex Presidente della Repubblica compare e scompare, si vede e non si vede, la immagini e subito dopo non la vedi più.

Il nome di Napolitano lo troviamo in un’altra storia legata alla Trattativa: quella di Attilio Manca. Mentre i magistrati di Viterbo – ormai passati alla storia per la coerenza con la quale hanno pervicacemente messo a tacere l’inchiesta – indagavano sulla morte dell’urologo barcellonese, arrivò nella Procura laziale un fax della Presidenza della Repubblica, a firma Giorgio Napolitano. L’ex inquilino del Colle – presidente anche del Consiglio superiore della magistratura – parlava di Attilio Manca. Perché proprio di lui, cioè di un morto “di serie B” (è detto ovviamente con ironia), dato che per i magistrati viterbesi – che non si sono mai curati di andare a fondo – il medico siciliano è sempre stato un morto per overdose? Perché fra i tanti deceduti per overdose che ogni giorno si registrano in Italia, Napolitano raccomandava ai magistrati viterbesi il nome di Attilio Manca ?

Magari avrà preso a cuore la vicenda, e si sarà pure commosso nel sentire il grido di dolore di una mamma, di un papà e di un fratello, che da sedici anni invocano verità e giustizia. Sì certo, sicuramente sarà stato per questo. Infatti dopo quello strano fax – ma sicuramente è una coincidenza anche questa –, Viterbo si è prodigata in tutti i modi per sotterrare l’inchiesta sotto una valanga di bugie, negando perfino l’evidenza.

Poi sono arrivati ben quattro pentiti – fino al giorno prima ritenuti attendibili – , i quali all’unisono, hanno dichiarato quello che i familiari, qualche giornalista e molti cittadini ripetono da quel lontano febbraio 2004: no egregi magistrati, vi sbagliate. Attilio Manca non è deceduto per droga. Dietro alla  sua morte c’è una raffinatissima messa in scena per far passare un omicidio per un suicidio da overdose. E dietro ci sono Cosa nostra e i servizi segreti deviati, invischiati nella Trattativa Stato-mafia. A fare da trait d’union fra le due entità è il boss Bernardo Provenzano, curato da Attilio Manca nell’ambito dell’operazione alla prostata a Marsiglia.

Dopo queste dichiarazioni esplosive che in un Paese normale avrebbero causato un terremoto, mentre in Italia hanno provocato soltanto un lieve solletico al sistema, Viterbo, sempre in coerenza con la solerzia invocata da Napolitano, escludeva dal processo “per droga” perfino i familiari della vittima con dei pretesti talmente assurdi che perfino la parola “assurdi” ci sembra inadeguata, e hanno condannando una donna romana con l’accusa – mai provata – di aver ceduto l’eroina al dottor Manca.

Dopodiché l’inchiesta – dato che i quattro pentiti avevano parlato esplicitamente di mafia – passava nelle mani della Procura competente, quella di Roma, capeggiata da Giuseppe Pignatone, con Michele Prestipino – che oggi ne ha preso il posto – titolare del fascicolo. Niente da fare anche per i magistrati della Capitale: Attilio Manca è un morto – senza prove – per eroina.

Poi l’altra inchiesta “ammugghiàta” (termine allegorico usato in Sicilia per indicare quando una cosa viene incartata, coperta, nascosta): la relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosi Bindi su Attilio Manca. Una relazione da “non” leggere assolutamente se si vuole comprendere in modo serio la storia dell’urologo barcellonese per le contraddizioni, le bugie, le ricostruzioni arbitrarie ivi contenute. Se invece si vuole comprendere cosa sono le “larghe intese” o gli inciuci fra destra e sinistra, “bisogna” assolutamente leggerla, perché è istruttiva.

Alla fine, nel focalizzare l’attenzione su certi spezzoni di intercettazioni su Palamara, ci siamo imbattuti casualmente su certi magistrati intenti a “trattare” i nomi dei nuovi vertici della Procura di Roma. E ci siamo detti: un’altra coincidenza, sicuramente.

Nella foto: l’ex pm di Palermo, Nino Di Matteo, oggi componente del Csm

Luciano Mirone