Antonio Ingroia, da ex magistrato, oggi avvocato, che idea si è fatto delle intercettazioni eseguite dalla Procura della Repubblica di Perugia nei confronti del suo ex collega Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e componente del Csm?

“Si è scoperto un mercato delle cariche, degli incarichi e delle carriere riguardanti la magistratura davvero desolante ed anche vergognoso. I cittadini hanno già poca fiducia nelle istituzioni e anche nella giustizia: questo ‘mercato’ volgare, nel quale un magistrato con poca storia professionale come Palamara (che in passato, come pm, non mi pare che si sia distinto chissà in quale indagine), sia padrone e artefice dei destini di tutti i magistrati d’Italia, esercitando questo potere attraverso la magistratura associata e il Consiglio superiore della magistratura, è davvero gravissimo. Le contiguità con la politica, le commistioni, gli inquinamenti, i salotti e le cene sono cose deprimenti per ogni cittadino, per ogni uomo delle istituzioni, che pone la trasparenza, la rettitudine e l’intransigenza come modello della propria vita, un’offesa al sacrificio di tanti magistrati perbene che sul fronte della lotta alla mafia sono stati uccisi”.

Il magistrato Luca Palamara. Sopra: l’ex pm Antonio Ingroia, oggi avvocato

L’articolo 104 della Costituzione stabilisce che il potere giudiziario deve essere indipendente dalla politica. In questo caso – stando alle intercettazioni su Palamara – si evince il contrario, cioè un groviglio fra potere politico e potere giudiziario.

“Non rimango totalmente sorpreso, anche se lo spaccato venuto fuori da queste intercettazioni va al di là della mia immaginazione. Purtroppo credo che sia il problema fondamentale della giustizia italiana: le difficoltà dei magistrati onesti ad affermare i principi di trasparenza e correttezza. Ne sono testimonianza le storie tormentate di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, spesso sottoposti a isolamenti, a vessazioni, a procedimenti disciplinari. Temo che queste relazioni insane tra politica e magistratura che riguardano il caso Palamara, sono solo la punta dell’iceberg”.

Il problema è risolvibile?

“Io credo che il pesce puzzi sempre dalla testa. O si fa una profonda riforma morale del Paese o non se ne esce”.

Rispetto al 2012, anno in cui lei lasciò la toga perché, secondo quanto ha sempre sostenuto, non l’hanno messa nelle condizioni di lavorare soprattutto sul processo Trattativa Stato-mafia, cosa è cambiato?

“Niente, anzi credo che la situazione sia peggiorata. Allora abbandonai la magistratura perché non potevo esercitare in maniera libera, autonoma e senza condizionamenti esterni il mio mandato, specie nelle indagini sul potere. Il problema in Italia è che se indaghi sui potenti vieni osteggiato perfino dalla stessa magistratura, mentre vengono premiati e ascendono a carriere luminose magistrati che interpretano il modello opposto (quello del magistrato burocrate, doppiopesista, forte con i deboli e debole con i forti). Quindi credo che bisogna riformare la politica. E’ necessaria una grande presa di coscienza da parte di tutti”.

Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura della Repubblica di Roma

Nelle intercettazioni a Palamara emerge, fra gli altri, il nome dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone che lei conosce bene, in quanto è stato assieme a lui a Palermo per diversi anni. Qual è il suo giudizio?

“Sul piano tecnico-professionale è certamente un magistrato di solida preparazione giuridica e di esperienza, perché si è occupato, anche lui, negli anni del ‘corpo a corpo’ con la mafia, di importanti indagini sull’ala ‘militare’ di Cosa nostra. E però Pignatone si è sempre ispirato a un modello di magistrato diverso dal mio”.

Cioè?

“Un modello di magistrato sempre ‘prudente’ (detto fra virgolette) nelle indagini sul potere, mentre ha dato il meglio di sé nelle indagini sulla mafia militare, in linea con il modello di magistrato prevalente nella storia della magistratura, che non è certamente quello di Falcone e Borsellino. Non è un caso che la sua carriera sia stata luminosa e accompagnata da consensi unanimi da parte delle correnti della magistratura, della politica e dei grossi media, mentre altri magistrati hanno avuto sempre ostacoli e difficoltà”.

Cosa pensa del fatto che qualche anno fa Pignatone ha chiesto l’archiviazione delle indagini – ottenuta dal Gip di Roma – sulla morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Attilio Manca, malgrado le dichiarazioni univoche e circostanziate di ben quattro pentiti, i quali hanno parlato di omicidio (smentendo le indagini precedenti, secondo le quali si sarebbe trattato di un decesso da overdose di eroina), voluto da Cosa nostra ed eseguito dai servizi segreti deviati, nell’ambito della Trattativa Stato-mafia, poiché Manca – secondo i collaboratori – sarebbe stato coinvolto nell’operazione di cancro alla prostata del boss Bernardo Provenzano?

“Quel modo di fare indagini (o di non farle) e di archiviarle, quel modo del tutto scettico sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, quel modo tutt’altro che convinto sugli input investigativi chiari e coerenti, provenienti da una serie di risultanze obiettive e inoppugnabili, ricorda certi compitini iniziati grazie alle battaglie della famiglia e dei legali (in quest caso, il sottoscritto e l’avvocato Fabio Repici), ma completati solo per dovere d’ufficio ma con un destino tracciato. Questo modo di fare indagini lo conoscevo, ed è coerente col modo di approcciarsi con argomenti scabrosi come la Trattativa Stato-mafia, nel cui contesto l’omicidio di Attilio Manca è maturato”.

L’urologo Attilio Manca

L’indagine sulla Trattativa compie vent’anni, giusto?

“Esatto. È l’indagine più scomoda di ogni altra di questo ventennio, che ha riguardato lo Stato nei suoi vertici, anche per la vicenda delle intercettazioni che hanno coinvolto l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano”.

Tutti questi fatti formano “un contesto”, per dirla con Sciascia?

“Fatti lontani fra loro, beninteso, ma dico di sì. Da quello che è venuto fuori dalle intercettazioni, dico che c’è stata una costante comunità di intenti e di idee fra ciò che Palamara faceva in sede di magistratura associata e di Csm nella selezione del personale e dei capi degli uffici, e quello che contemporaneamente Pignatone faceva sul piano operativo nella selezione delle indagini. Sono storie un po’ parallele: un’indagine come quella su Attilio Manca doveva essere archiviata? E la carriera dei magistrati che si occupavano della Trattativa doveva essere ostacolata? Ricordiamo che nel momento in cui si determinò lo scontro col Quirinale sul conflitto di attribuzione, l’associazione nazionale magistrati presieduta da Palamara si schierò contro di noi e a difesa del Quirinale”.

Pignatone è stato criticato per avere accettato di recente – dopo essere andato in pensione – la presidenza del Tribunale Vaticano, dopo che aveva chiesto l’archiviazione delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, in cui proprio il Vaticano – secondo la famiglia Orlandi e non solo – sarebbe coinvolto assieme alla banda della Magliana e ai servizi segreti deviati.

“Non conosco benissimo il caso Orlandi, ma mi sembra una storia che si ripete, seppure verificatasi in contesti diversi, malgrado la grande stima che nutro per Papa Francesco, che evidentemente non conosce bene certe vicende e certe carriere”.

Il procuratore della Repubblica di Roma, Michele Prestipino

Cosa pensa del successore di Pignatone, il dottor Michele Prestipino, che ha operato con lei a Palermo per diversi anni?

“Prestipino arrivò a Palermo negli anni del procuratore Caselli, quando mi venne affiancato in numerose indagini. Ho avuto modo di apprezzare la professionalità, l’equilibrio e la competenza del nuovo procuratore di Roma, che però, fatalmente, nell’arco di pochi anni è diventato un ‘fedelissimo’ di Pignatone  (allora procuratore aggiunto a Palermo), col quale si è creata subito una comunanza di intenti e di sensibilità. Su Prestipino ripeto lo stesso giudizio dato su Pignatone. Dopodiché qualcuno dovrebbe spiegarmi cosa ha fatto la Procura di Roma negli anni in cui c’è stato Pignatone”.

Cosa ha fatto, secondo lei?

“Indagini e processi che hanno riguardato ministri, uomini politici, potenti? Non credo. Da una parte ci sono state delle archiviazioni (vedi anche la vicenda Consip-Renzi) e dall’altra ‘Roma Capitale’, un’indagine bluff molto pompata dai media, nella quale è emerso un grumo di affari illeciti di una piccola associazione politico-criminale, come in Sicilia ne esistono a decine, enfatizzata come se fosse una nuova forma di mafia radicatasi a Roma. Mi pare che la Cassazione abbia fatto giustizia di questa impostazione”.

Pignatone e Prestipino, a Palermo, hanno avuto il merito della cattura di Bernardo Provenzano.

“Il merito lo hanno avuto i poliziotti che hanno svolto le indagini e lo hanno arrestato. Spesso il ruolo del pm è secondario in questa forma di investigazioni. Ma comunque, diciamo pure che hanno avuto il merito di essersi ritrovati a coordinare l’indagine dell’arresto del boss. Resta la grave colpa e responsabilità dell’archiviazione del caso Manca, il rifiuto di rischiarare le zone d’ombra che ci sono attorno alla latitanza di Provenzano. Perché un conto è l’arresto di Provenzano, un altro quello che è accaduto prima, quando era latitante, quando è emerso un trattamento di favore privilegiato da parte di alcuni apparati dello Stato nei confronti del boss, garante mafioso del patto osceno fra Stato e mafia. Se si fosse indagato seriamente sulla morte di Attilio Manca si sarebbero scoperti altri pezzi e altri angoli della Trattativa che purtroppo si sono portati dietro una lunga scia di sangue”.

Luciano Mirone