Questo giornale non ha preso una posizione sulla vicenda Di Matteo-Bonafede – e mai ne prenderà, né a favore dell’uno né a favore dell’altro – perché si tratta di una polemica che per la sua complessità ci pone molti dubbi e poche certezze. E in un’Italia dove esistono solo certezze, riteniamo che un problema del genere vada affrontato con la necessaria prudenza. 

Abbiamo sempre detto che quello attualmente in carica è il miglior governo possibile, anche se nei nostri ideali c’è ben altro. Ma siccome non osiamo immaginare cosa potrebbe essere l’Italia con un esecutivo a guida Salvini-Meloni-Berlusconi (con quella carica esplosiva di populismo, di xenofobia, di malaffare di cui i singoli leader del centrodestra sono portatori), ci accontentiamo del “meno peggio” cercando di dare un contributo per arrivare “al meglio”, cosa forse impossibile in un’Italia è in crisi di classe dirigente da diversi decenni. 

Ma allora dobbiamo rassegnarci al “meno peggio”? Assolutamente no. Ma siccome siamo consapevoli che in un Paese di voltagabbana, di tornacontisti e di trasformisti il compito è improbo (e lo diciamo con cognizione di causa per aver visto certe dinamiche dall’interno), l’unica cosa che possiamo fare è quella di mettere a confronto la destra e la sinistra di oggi. E scegliere. A meno che non decidiamo di rifugiarci nell’astensionismo.

Ma andiamo al sodo. Perché non abbiamo preso una posizione sulle dimissioni di Bonafede o sull’opportunità di Di Matteo ad intervenire nella trasmissione di Giletti per denunciare il voltafaccia del ministro poche ore dopo che questi gli aveva proposto la direzione del Dap?

Nei giorni scorsi abbiamo ospitato due tesi opposte e le abbiamo messe a confronto – una del magistrato Santino Mirabella che ha stigmatizzato l’atteggiamento del collega, l’altra della militante antimafia Fanny Dipietro che lo ha difeso – ma noi, come giornale (fatto inusuale per chi ci conosce), non abbiamo ritenuto di schierarci tout court, sia per chiedere le dimissioni del ministro, sia per criticare l’operato dell’ex pm del processo Trattativa.

Ovviamente non perché abbiamo voluto lavarcene le mani, ma perché la questione è talmente problematico che va trattata con delicatezza, sennò il rischio di far male è davvero grosso, specie per chi fa informazione.

Sul piano etico, secondo noi, il ministro Bonafede ha commesso un errore incredibile: prima propone la direzione del Dap a un magistrato valoroso come Di Matteo, gli strappa una promessa (“Ministro, mi dia alcune ore per pensarci e le faccio sapere”), e poi, quando l’ex pm si reca dal Guardasigilli con l’umiltà che lo contraddistingue per dargli la risposta affermativa, gli dice che per quel posto, nel frattempo, ha nominato un altro magistrato. Un errore, ed anche una scorrettezza. Grossa. 

Possiamo discutere finché vogliamo sull’opportunità o meno di Di Matteo di aver denunciato il fatto due anni dopo, ma l’errore e la scorrettezza restano. Bonafede fa male ad insistere: non è stata una “percezione”, come lui stesso afferma per alleggerire il peso dell’azione. Di Matteo ha raccontato un fatto e il ministro non lo ha saputo smentire, perché la verità è come la roccia: incancellabile.

Allora si è cercato di capire quali fossero i possibili retroscena che hanno portato il ministro ad assumere un comportamento del genere. Il più probabile è che qualcuno “molto in alto”, nel 2018 (epoca in cui si sono svolti i fatti, quando al governo c’era la maggioranza Lega-M5S), abbia indotto il titolare di via Arenula a quella repentina marcia indietro. E Bonafede, per non alterare certi equilibri (la storia che i boss lo avessero condizionato, a nostro avviso, non ha fondamento), non ha indugiato ad applicare l’ubi major minor cessat, ovvero “dove c’è il maggiore, il minore decade”.  

E in questa storia potrebbe esserci un maggiore e un minore, con un ministro in mezzo che smentisce, parla di “percezioni”, non riesce a dissimulare il proprio imbarazzo. Quindi sul piano etico, crediamo che non vi siano dubbi: Bonafede esce a pezzi.

È sufficiente tutto questo per chiedere le sue dimissioni? Secondo noi sì. Se non fosse per alcuni dubbi che non possono essere celati.

E se con le dimissioni di Bonafede (o con una mozione di sfiducia) fosse caduto il governo, quali sarebbero state le conseguenze? Bonafede è un ministro onesto? E’ un ministro competente? L’eventuale incompetenza è attribuibile ad impreparazione o a inesperienza?

Se è dovuta a impreparazione, l’idea delle dimissioni caldeggiata da molti, è fondata. Ma se è dovuta ad inesperienza, forse bisognerebbe discutere in modo più cauto, prendendo in considerazione tanti altri fattori che non possono essere sottovalutati.

Dopodiché vorremmo porre un altro paio di domande (forse quelle più importanti): qualcuno ricorda certi ministri, certi sottosegretari e certi governi del passato? Vi dicono qualcosa i nomi di Andreotti, di Gioia, di Gunnella, di Berlusconi, di Gava, di Previti, di Lunardi (“Con la mafia bisogna convivere”), di Scajola, di Cosentino? Bonafede ha fatto una cazzata, ma non è come loro. 

E vorremmo capire se qualcuno ricorda quando, alla vigilia della formazione di un recente governo, fu posto all’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il nome del giudice Gratteri come ministro della Giustizia. Napolitano – che non ha mai digerito l’indagine sulla Trattativa Stato-mafia – fece un salto sulla sedia e pose il veto: no, meglio Andrea Orlando del Pd. E così Andrea Orlando si ritrovò ministro.

E così Andrea Orlando, da ministro, sul caso della morte dell’urologo Attilio Manca (uno dei più scandalosi dell’Italia repubblicana) ha assunto una posizione talmente pilatesca che ancor oggi, dopo alcuni anni, proviamo disagio (per lui) perfino a descrivere. Peggio, nello stesso partito e sullo stesso argomento, ha fatto solo l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi, con una ricostruzione dei fatti talmente arbitraria da sfiorare il grottesco.

Perché parliamo di Attilio Manca? Perché la sua morte, secondo ben cinque pentiti (e non solo), è attribuibile all’intervento alla prostata che l’urologo avrebbe fatto al boss Bernardo Provenzano, guarda caso, uno dei protagonisti della Trattativa con le istituzioni.

La Trattativa. Al centro della vita politica italiana da una trentina d’anni, sia a destra che a sinistra, direttamente o indirettamente. Ai tempi dell’inchiesta di Di Matteo e dell’inchiesta su Attilio Manca, il M5S era all’opposizione e tuonava contro le collusioni fra mafia e politica.

Oggi è al potere con un partito che in passato, se non è risultato colluso, può essere definito “funzionale” – attraverso il comportamento di certi suoi esponenti – al disegno eversivo portato avanti da pezzi dello schieramento opposto (vedi la condanna, ad esempio, del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri).  

Oggi i 5S sono al governo col Partito democratico, con Leu e con Italia Viva di Matteo Renzi: un nome e una garanzia. Ci sono stati errori e anche qualche orrore, ma ci sono anche tante persone perbene in questa maggioranza. Il momento è delicatissimo. Tutto dipende dagli equilibri e dai rapporti di forza che si instaurano. Quando vai al potere – la storia lo insegna – se chiedi dieci, ottieni tre per le ragioni appena esposte. 

Ecco perché – con certi pericoli all’orizzonte – continuiamo a sostenere sempre e comunque Di Matteo, ma al tempo stesso diamo un’altra possibilità a Bonafede e all’esecutivo.  Questa la nostra posizione.

Nella foto: l’ex pm Nino Di Matteo, oggi al Consiglio superiore della magistratura

Luciano Mirone