Era il pomeriggio del 16 aprile quando i residenti del Centro di prima accoglienza migranti di Halfar – noto come Open Center – si ammassavano alle finestre sbarrate gridando “Freedom, we want freedom”, alle televisioni locali accorse sul luogo.
Sentire il grido “libertà” in un momento di piena crisi sanitaria è davvero straziante. E nel silenzio che avvolge l’isola in questi giorni surreali, queste grida sono ancora più assordanti. Proviamo solo ad immaginare di vivere in uno spazio sovraffollato e chiuso, sapendo che un positivo da COVID-19 potrebbe essere lì, a pochi metri da te.
È questa la realtà quotidiana dei residenti del Centro migranti, sempre più terrorizzati di contrarre il virus, proprio perché i contagi all’interno delle loro mura continuano ad aumentare, sfiorando i 40 casi ufficiali.
Eppure, secondo le fonti ufficiali, non ci sarebbe di che preoccuparsi: una nuova struttura medica sta aprendo le sue porte. Un edificio che può ospitare fino a 150 persone potenzialmente positive al virus che si prefigge il completo recupero dei pazienti. Un magnifico spot “dell’andrà tutto bene”.
Peccato che nel Centro migranti si contino circa 1200 ospiti – e non 150 – e peccato che le misure rigorose imposte al resto della popolazione maltese, all’interno dell’Open Center continuano a non essere applicate, vista la condivisione dei bagni, dei dormitori e degli spazi pubblici: in pratica l’atmosfera perfetta per un focolaio potenzialmente catastrofico, in uno spazio inferiore a 5mila metri quadrati e con ben otto persone per container ad uso abitativo.
Le autorità governative sembrano minimizzare le preoccupazioni degli abitanti del Centro, riponendo le proprie speranze sull’età anagrafica dei migranti, ritenuti “giovani e forti” e potenzialmente immuni dalle gravi complicazioni. Basta vedere le misure “contenitive” adottate per capire: l’effettuazione di tamponi a gruppi casuali di residenti, e la distribuzione di un volantino che descrive in dettaglio le misure da rispettare in merito alla distanza sociale.
Secondo quanto riferito dal quotidiano locale “Lovin Malta”, il Governo ha inoltre istituito una connessione internet Wi Fi per aiutare i residenti a comunicare con il mondo esterno. Ma anche questa misura rischia di essere in contraddizione con quelle precedenti: la connessione infatti non riesce a coprire in maniera totale l’area del campo, costringendo così gli ospiti a riunirsi in massa per collegarsi, trasgredendo la regola essenziale del distanziamento sociale.
Sorgono problemi anche in merito alle scorte di cibo e di bevande, che cominciano ad esaurirsi: i residenti, che solitamente acquistano le provviste grazie ai loro redditi personali – molti di loro, in quanto lavoratori, percepiscono un regolare stipendio – continuano a fare affidamento sul Governo per i rifornimenti. I quali vengono sì recapitati, ma in numero sempre più esiguo e certamente non sufficiente per soddisfare il fabbisogno di oltre mille persone.
E mentre lo “stadio d’assedio” della polizia e dell’esercito continua ininterrottamente all’ingresso del Centro, Malta sembra trattare gli ospiti dell’ Open Center come una sub comunità. La popolazione migrante è sempre stata considerata il “tallone d’Achille” dell’isola. Alla discriminazione e alla difficoltà di comunicazione, per gli extracomunitari va aggiunto l’altro paradosso di essere “prigionieri” senza nessuna accusa, con l’esercito che sbarra la strada d’uscita, in un luogo non ideale per una quarantena forzata e allo stato delle cose, a tempo indeterminato.
Valentina Contavalle
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