Era un uomo d’altri tempi papà, di quelli che, quando ti dicevano “ti do la mia parola”, potevi dormirci sopra tranquillamente, come se avesse firmato un contratto. Col suo temperamento sanguigno, aveva attraversato la seconda grande guerra, in bilico, suo malgrado, su quella linea sottile che, in un attimo, può cambiare la sorte di un uomo.

Era Settembre. 1944. Papà si trovò, dall’oggi al domani, dentro un vagone bestiame, assieme ad altri soldati, e ad un numeroso gruppo di ebrei. Il treno era diretto in Germania, destinazione uno dei tanti campi di concentramento disseminati dentro i confini del Terzo Reich.

Quella giornata era particolarmente torrida. Il sole passava attraverso le feritoie incise nel robusto legno del vagone, tanto da creare dei fasci di luce paralleli e simmetrici, a tratti, illuminavano e coloravano gli angoli più bui, quasi come se qualcuno, là fuori, volesse incoraggiare quei poveri diavoli, dicendo che, tutto sommato, la vita è bella. 

All’improvviso, prima di oltrepassare il confine, il treno si fermò bruscamente. Qualcuno pensò ad un guasto, qualcun altro non si chiese nemmeno il perché, spossato per le percosse subite, ormai arreso all’imponderabile. Si sentirono dei passi svelti che s’avvicinavano al vagone, e poi un parlare frenetico, cattivo.

Il tedesco non era più una lingua, ma un incomprensibile insulto alla dignità di ogni essere umano, persino verso chi recitava, ormai, il ruolo del carnefice. Il vagone fu aperto con un gesto improvviso, tanto da inondarne di luce l’interno sudicio e maleodorante.

Per un attimo non videro nulla, accecati e trafitti da quel bagliore violento, come può esserlo un giorno da deportati. Il soldato che aveva aperto il vagone, stranamente sorrideva, parlando, adesso, con inconsueta calma, e indicando, con l’indice della mano destra, un campo di uva grossa e matura.

Capirono che li stava invitando a scendere, e qualcuno pensò che, in fondo, non erano poi così cattivi. Si precipitarono sulle viti, ridendo e ringraziando il buon Dio. Erano succulenti gli acini, e dolci, come può esserlo una giornata di sole, nonostante il treno, il vagone, i tedeschi. Se, in quei momenti, qualcuno avesse chiesto loro se esiste la felicità, avrebbero di sicuro risposto che sì, certo che esiste la felicità, era lì, davanti a loro, in quel campo di uva. Ma non ci fu nemmeno il tempo di pensare, o di porsi qualsiasi domanda, o di dirsi quanto era buona quell’uva, trascinati da un istinto vorace, animalesco, né di capire cosa stava succedendo quando, una lunga mitragliata li falciò tutti, colorando di rosso l’erba verde di quel Settembre.

Papà, fortunatamente, non fu colpito. Vide i corpi cadere giù come birilli. Istintivamente mise la testa sotto un uomo che moriva, attraversato dagli ultimi fremiti di vita. Sentì delle parole incomprensibili, urlate in quella lingua che ormai odiava e, subito dopo, degli spari, adesso uno alla volta, tanti quanti ancora s’aggrappavano alla vita.

Il cuore gli batté forte, tanto da udirne il rumore frenetico. Avrebbe voluto bloccarlo quel cuore, solo pochi attimi, il tempo che l’ufficiale andasse via da lì. Gli passò accanto, fermandosi un attimo, come se avesse capito.Una voce, da lontano, si alzò nel silenzio funereo. L’ufficiale rispose con calma, con quella freddezza che solo veri assassini conoscono. Rimise la pistola nel fodero, e si avviò verso il treno. Papà stette ancora immobile, finché non sentì le rotaie muoversi. Fu allora che capì quant’è meraviglioso respirare. 

Quell’anno, il 24 Marzo, avveniva il vile e feroce massacro delle Fosse Ardeatine. Il 6 Giugno dello stesso anno iniziava lo sbarco in Normandia.

Mario Testa