L’altro giorno, quando è morto Luis Sepulveda, ucciso dal coronavirus, abbiamo detto che il mondo perdeva un grande scrittore. Lo abbiamo titolato con la tristezza di chi, da lontano, vede spegnersi un faro al quale una nave in tempesta fa riferimento quando rischia di affondare.

E allora mi è tornata alla mente una domanda che da anni mi pongo: qual è la differenza fra lo scrittore e il grande scrittore?

Il grande scrittore – ovviamente si tratta di una opinione del tutto personale e come tale criticabilissima – non è solamente colui che scrive in modo elegante. Non è solamente il raccontatore di storie più o meno belle. Non è solamente l’autore che vende milioni di libri l’anno. E’ “anche” questo, ma non “solo”: questo è appannaggio dello scrittore senza aggettivi, di cui gli scaffali delle librerie sono pieni di opere rispettabilissime, che tuttavia non rappresentano quel faro.

Il grande scrittore è innanzitutto un intellettuale, è la luce che illumina la tenebra, il visionario che ha il coraggio di sfidare il potere e le mode, i qualunquismi e gli oscurantismi, le menzogne e i dogmi, anche a costo della prigione, della fame, dell’esilio, dell’emarginazione, della morte.

Per il grande scrittore il fine non è il successo, la carriera, i soldi e la visibilità, ma la verità, la libertà e la giustizia sociale, i veri valori per i quali la vita vale la pena di essere vissuta, e che non possono essere scissi con le storie raccontate nei romanzi. Dopodiché può anche avere tutti i difetti di questo mondo, ma per questi tre principi egli continuerà a combattere e ad essere immortale.

Per noi Luis Sepulveda è stato (ed è) questo. Un combattente al fianco di uno straordinario simbolo di libertà come Salvador Allende, il presidente socialista cileno costretto al suicidio perché l’esercito del generale Pinochet – auspice l’America di Nixon, di Kissinger e della Cia – aveva messo a ferro e fuoco il Paese assaltando la Moneda, sede della presidenza della Repubblica cilena. In quelle ore Sepulveda fu catturato, arrestato e torturato, assieme a migliaia di ragazzi cileni che sognavano un futuro diverso per il loro Paese. Molti di questi furono uccisi, altri – tra cui lui – si salvarono e furono costretti all’esilio da una dittatura violenta, ottusa e volgare.

Quando, molti anni dopo, Luis tornò al suo Paese, non lo ritrovò più com’era: le contaminazioni del capitalismo selvaggio avevano condizionato il modo di essere di questo popolo un tempo romantico e ingenuo. Era successa la stessa cosa che era successa all’Italia del post boom economico che sarebbe arrivata a Tangentopoli.

In una bellissima intervista rilasciata a Enzo Biagi, Sepulveda disse: “No, la mia gente non è più quella di prima. Dopo la dittatura ho ritrovato il cinismo, le furbizie, il calcolo di quei popoli che vivono solo per i soldi dimenticando il resto”.

Non so perché, ma quando ho saputo della sua morte, ho ricordato una frase che Alberto Moravia pronunciò durante i funerali di Pasolini: “Di scrittori, di intellettuali, di poeti come questi ne nascono uno ogni cento anni”.

E poi una frase che lui stesso confidò a un giornalista che gli aveva fatto questa domanda: “Sepulveda, quando si diventa vecchi?”. E lui: “Quando si finisce di sognare”.

Nella foto: lo scrittore cileno Luis Sepulveda

Luciano Mirone