Secondo la Corte d’Appello di Catania – lo abbiamo visto nella prima puntata di due giorni fa – l’editore catanese Mario Ciancio ha intrattenuto rapporti di “cordialità”, di “contiguità”, di “vicinanza”, di “amicizia” con Cosa nostra, ma mai è stato un colluso, almeno secondo il significato che dà l’enciclopedia Treccani di questa parola: “Nel diritto, ogni intesa clandestina fra due o più persone per conseguire un fine illecito”.

A parere dei giudici d’Appello (che hanno deciso di annullare la confisca di 15o milioni di beni disposta due anni fa dal Tribunale, secondo cui, invece, Ciancio ha trattenuto rapporti ben più profondi con la mafia, e quindi è da considerare “socialmente pericoloso”), al massimo ci sono state delle condotte di cui l’editore non è mai stato “consapevole”. 

Il boss Benedetto “Nitto” Santapaola. Sopra: l’editore catanese Mario Ciancio

E anche se Ciancio, in merito ai suoi “coinvolgimenti” con i boss (specificamente con la cosca Ercolano-Santapaola), ha reso ai magistrati “dichiarazioni chiaramente reticenti e tra loro contrastanti”, non può essere considerato un “imprenditore colluso”, poiché “per giungere a tale posizione di complicità penalmente rilevante – si legge nella sentenza – è necessario ed indispensabile che l’imprenditore arrechi dei contributi fattivi in favore dell’organizzazione mafiosa, manifestando, in tal modo, la sua disponibilità in favore dell’associazione, e così facendo rafforzando in concreto l’associazione mafiosa”.

A questo punto ci chiediamo se gli episodi che elenchiamo (per difetto) siano frutto di “inconsapevolezza”, di “cordialità”, di “contiguità”, di “vicinanza” e di “amicizia”, o di ben altro.

Ci chiediamo a cosa addebitare il seguente messaggio lanciato dal quotidiano La Sicilia subito dopo l’assassinio di Fava: “Gli inquirenti stanno battendo piste diverse, non escluse quelle relative a eventuali questioni di natura privata”. (A proposito: nelle 119 pagine della Corte d’Appello, il nome di Fava compare solo un paio di volte).

L’assassinio mafioso di Giuseppe Fava a Catania commesso il 5 gennaio 1984. Sopra: l’editore catanese Mario Ciancio

E le dichiarazioni del pentito Angelo Siino al processo Orsa Maggiore (“Avevano messo in campo contro il Fava la classica strategia mafiosa della delegittimazione”) sono da considerare un fatto isolato oppure vanno collegate con il messaggio di cui sopra?

E il clamoroso depistaggio sul delitto Fava scattato su La Sicilia il 2 Giugno 1994, quando il pentito Maurizio Avola (“attendibilissimo”, secondo i magistrati della Procura) svelò che il mandante dell’omicidio era stato Nitto Santapaola e l’esecutore Aldo Ercolano? Titolo di prima pagina: “Clamorosa autoaccusa di un pentito catanese: dice la verità o è un infiltrato?”. Risparmiamo i contenuti del testo per ragioni di spazio.

E le pesantissime dichiarazioni della stessa Procura in conferenza stampa convocata per smentire le tesi del quotidiano di Ciancio? “Si sta cercando di fare passare Avola come infiltrato della mafia. Ci sono notizie completamente false che vengono attribuite ad Avola” (Amedeo Bertone, allora Pm a Catania). “Si tratta di un’operazione studiata a tavolino per far passare la tesi che i pentiti sono dei pazzi, dei mitomani, e in quanto tali, inattendibili. Quello che è avvenuto non è stato casuale. Chi pubblicava sapeva perfettamente, per essere stato avvertito proprio da noi, che si trattava di cose false” (Mario Amato, allora Pm a Catania). 

E la notizia data con un paio di giorni di ritardo rispetto ai giornali nazionali sul coinvolgimento di Santapaola nell’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa?

E l’articolo del cronista di punta de La Sicilia, Tony Zermo, scritto il 6 gennaio 1998, in occasione del quattordicesimo anniversario del delitto Fava (“C’erano una volta i cavalieri del lavoro di Catania… Erano il fiore all’occhiello della città… Erano talmente potenti e così strettamente legati a esponenti politici di importanza nazionale da attirare non solo ammirazione, ma anche invidia, tanto che qualcuno negli anni bui li soprannominò ‘i quattro cavalieri dell’Apocalisse mafiosa’, come se i mali della città dipendessero da loro”).

Il giornalista de La Sicilia, Tony Zermo

E le irruzioni nella sede del quotidiano La Sicilia da parte del boss Giuseppe Ercolano – braccio destro di Santapaola – per esprimere le sue rimostranze all’editore “amico” per un pezzo non particolarmente gradito?

E la “minimizzazione sulla statura criminale di Santapaola”, coinvolto inizialmente nel delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari (1980), quando il giornale di Ciancio scrisse che si trattava di “un contrabbandiere”? “Per quell’omicidio, Santapaola fu assolto – ha dichiarato uno dei magistrati della Procura – , ma quel che colpisce è il tentativo di condizionare l’operato degli inquirenti”.

E la lettera che Santapaola scrisse dalla latitanza, pubblicata da La Sicilia, in cui il boss dichiarava di aver frequentato i salesiani e di essere un perseguitato?

E la lettera dell’altro Santapaola che La Sicilia ospitò con tutti gli onori?

E le censure dei comunicati stampa e perfino delle foto di Claudio Fava – figlio del fondatore de I Siciliani e destinatario di un fallito attentato – , sia come parlamentare europeo, sia come parlamentare nazionale, sia come parlamentare regionale?

E il necrologio censurato ai familiari del commissario Beppe Montana, trucidato da Cosa nostra palermitana, solo perché costoro si erano permessi di usare la parola “mafia”?

E le strane insinuazioni fatte dall’Espresso Sera – quotidiano del pomeriggio appartenente al gruppo Ciancio – nei confronti del corrispondente de “La Sicilia” da Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Beppe Alfano, ucciso l’8 gennaio 1993 da Cosa nostra, in un articolo in prima pagina: “Non è sicuro che ad uccidere sia stata la mafia” (solo per limitarci al titolo), mentre “La Sicilia”, nelle stesse ore, elevava inni alla memoria del “suo” “coraggioso ed esemplare cronista”? Anche in questo caso la presenza di Santapaola è casuale? Basta leggere le dichiarazioni della figlia del cronista ucciso, Sonia Alfano, ex presidente della Commissione antimafia al Parlamento europeo, per capire: “Mio padre è stato ucciso perché aveva scoperto il nascondiglio barcellonese del boss catanese durante la latitanza”.

Tutto questo non è un “contributo fattivo” e neanche il frutto di una strategia messa in atto scientificamente dal maggiore quotidiano della Sicilia orientale per favorire Cosa nostra. Non è una prova per ritenere che l’editore abbia contribuito “consapevolmente” agli affari di Cosa nostra. Solo una condotta eticamente censurabile. Almeno secondo i giudici della Corte d’Appello del capoluogo etneo.

Resta da capire come finirà questa partita in Cassazione e come finirà l’altra partita: il processo per concorso esterno in associazione mafiosa attualmente in corso a Catania.

Luciano Mirone

Seconda puntata. Fine