Ce ne ricorderemo, un giorno, di questo primo scorcio di Duemilaventi. E se ne ricorderanno i nostri figli e i figli dei nostri figli, e i libri di storia, di medicina, di economia, e perfino i romanzi, anzi, soprattutto quelli: magari qualcuno lo intitolerà “L’amore ai tempi del coronavirus”.

Sì, ce ne ricorderemo, come Manzoni, come Garcia Marquez, come Matilde Serao ed altri scrittori fecero in altre epoche con la peste, col colera, con la spagnola, dandoci la sensazione che certi scritti fossero usciti dalle loro fervide immaginazioni, senza sapere che la realtà supera sempre la fantasia. E oggi la realtà sta superando cose che appena due mesi fa – quando tutti ci credevamo invulnerabili – neanche avremmo immaginato.

Racconteremo che c’è stato un momento (o forse più di un momento: dipende dai vaccini prossimi venturi) incastonato nell’epoca delle “certezze assolute” (Trump certo della sua America, Salvini della superiorità dei bianchi sui neri, Berlusconi dell’eterna giovinezza) in cui all’umanità è stato proibito perfino baciarsi, abbracciarsi, stringersi la mano, darsi un segno di pace, farsi il segno della croce attraverso l’acquasantiera, andare allo stadio, al cinema, al teatro, a una conferenza, a una gita, a una serata da ballo, addirittura spedire una lettera in certi luoghi, come leggi in un cartello affisso all’ufficio postale.

Racconteremo che gli unici ad essere contenti sono i ragazzi che dal 5 al 15 marzo dell’anno del Signore Duemilaventi hanno prolungato le vacanze di Natale, dopo un paio di mesi trascorsi a fracassarsi “i cosiddetti” tra i banchi di scuola.

Racconteremo dei nostri lunghissimi pomeriggi trascorsi da soli o con i nostri familiari ad apprezzare il calore del focolare domestico… ognuno per i c… propri, stravaccato sul divano con facebook, instagram, twitter, interminabili chat, furibonde litigate e grandi rappacificazioni a base di partite a porte chiuse, mariedefilippi e cronacheindiretta.

Racconteremo di come, avendo finalmente riconquistato il focolare domestico, ci saremmo sentiti Alberto Sordi quando va in monastero per espiare i propri peccati: ooohhh-che-bello-il-canto-del-cardellino-oooohhhh-il- fiorellino-appena-sbocciato. Bello, certo, ma per du’ giorni. Mo’-me-ne-torno-in-città.

E noi quando ci torniamo in città? Ad aprile, in estate, alla fine dell’anno? Questo non è stato ancora scritto e quindi non sappiamo raccontarvelo. L’unica cosa certa è che ce ne ricorderemo di quest’epoca in cui l’uomo si scoprì improvvisamente piccolo, vulnerabile e insicuro.

Luciano Mirone