Un libro, “Cosa Nostra Spa” di Sebastiano Ardita (prima presentazione in Italia, domenica 16 febbraio alle 18 al Club Progressista di Belpasso – Catania – , via Roma 279, dove il magistrato converserà con il sottoscritto), che parte dai rioni poveri di Catania e si sposta nei locali notturni, nei centri commerciali, nei quartieri della borghesia mafiosa, fino ad arrivare alla politica e alla “falsa antimafia” dei Montante. Con i nomi: da un lato i vecchi gattopardi – Nitto Santapaola, Mario Ciancio, Raffaele Lombardo, Nino Drago – che hanno stravolto per sempre il volto della città, dall’altro i nuovi – Enzo Bianco del centrosinistra e Nello Musumeci del centrodestra, dopo le “primavere”  degli anni Ottanta e Novanta determinate al Comune e alla Provincia – , adattatisi ai tempi nuovi, senza segnare quella rivoluzione che in tanti auspicavano.

L’ultimo libro di Sebastiano Ardita. Sopra: il magistrato durante una conferenza

Alla fine a rimetterci sono sempre i più disgraziati, i dannati, quelli che vivono ai margini, quelli che devono inventarsi i più disparati sistemi per campare, quelli col padre in galera che non possono permettersi di inseguire il sogno di fare il carabiniere; quelli che spacciano a Librino e a San Cristoforo, quell’esercito di ragazzini assoldati dalla Cosa nostra Spa, troppo “dentro” al meccanismo perverso del ghetto per poterne uscire, e troppo “fuori” dal sistema legale per potersi permettere un futuro diverso.

Quella Cosa nostra Spa che si è fatta imprenditrice e che rispetto ai tempi delle grandi stragi ha cambiato pelle, meno delitti eclatanti più trattative (con la politica, con l’alta finanza, con la massoneria, con i servizi segreti deviati); meno eversione più emersione; meno piombo più salotti buoni; meno puzza di stalla più profumo Chanel; meno dialetto rozzo più italiano forbito; meno terze elementari più lauree. Questa la nuova strategia delineata in questo volume di duecento pagine.

Il libro di Sebastiano Ardita (Paper First editore) –  che assieme ai colleghi Piercamillo Davigo, Nino Di Matteo, Nicola Gratteri (per citarne solo alcuni), sta cercando di rimuovere le incrostazioni presenti all’interno del Csm dopo il caso Palamara – è un’analisi lucida sulla “nuova mafia”, sulla strategia che essa sta portando avanti per continuare a comandare e a fare colossali affari. Una mafia più suadente, più silenziosa, più affabile, più inserita nel sistema socio-economico rispetto a quella grezza e violenta dei Corleonesi Riina e Bagarella.

Una mafia che – come scrive Ardita – oggi ha come modello “i catanesi”, specificatamente Santapaola. Leggendo il volume, però, non si coglie – questa è una nostra opinione, e come tale discutibile – a quale Santapaola ci si riferisca: al Santapaola che gestisce le “belle notti” dei catanesi nei locali alla moda e contemporaneamente coltiva le sue amicizie col prefetto, col questore, col comandante dei carabinieri, coi cavalieri del lavoro e con alti magistrati; o al Santapaola coinvolto nell’assassinio del generale dalla Chiesa, al Santapaola mandante della strage al casello di San Gregorio (tre carabinieri uccisi per liberare il boss Angelo Pavone), della strage alla circonvallazione di Palermo (tre carabinieri uccisi, più l’autista del pulmino, per far fuori il boss Alfio Ferlito, suo concorrente per l’egemonia di Cosa nostra a Catania), del delitto del giornalista Pippo Fava, dell’ispettore Lizzio, di un paio di balordi che ebbero l’ardire di scippare la borsetta alla madre del capomafia, e di tantissima altra gente.

La cattura di Santapaola

Perché  se è vero che il capomafia etneo, rispetto ai Corleonesi, possiede il bon ton del “politico”, è anche vero che non può essere considerato il modello della nuova Cosa nostra che bandisce le stragi e i delitti eccellenti.

In tal senso, semmai, possono assurgere a emblemi personaggi come Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, capaci di avere un’interlocuzione con Berlusconi e con Andreotti e al tempo stesso di dedicarsi silenziosamente al traffico di eroina, agli appalti e a certi delitti “strategici” come quelli di Enrico Mattei, di Mauro De Mauro e di Peppino Impastato, senza ricorrere a stragi di carabinieri.

L’opera di Ardita ha il pregio di spiegare le dinamiche più occulte che si celano dietro all’enorme concentrazione di centri commerciali nell’hinterland catanese, che ha depauperato, forse irreversibilmente, il piccolo commercio – il negozio di abbigliamento, la bottega di generi alimentari, la latteria, la merceria – fino a poco tempo considerato l’anima economica della città.

Con diversi responsabili. Fra i quali spiccano i nomi dell’editore del quotidiano La Sicilia, Mario Ciancio, e dell’ex governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo: il primo beneficiario – non l’unico, ma certamente il più importante – degli “affari mafiosi” che ruotano attorno alla mega cementificazione di un pezzo di Piana di Catania, il secondo “facilitatore” politico di certi meccanismi perversi che hanno aperto le porte a una imprenditoria rampante e a una mafia sempre più assetata di danaro, chiudendole – nel senso letterale del termine – a tanti piccoli esercizi che da secoli non rappresentavano “il tessuto” della città, ma erano “la” città.

Mario Ciancio

Da Catania a Caltanissetta – città di Antonello Montante, ex presidente degli industriali siciliani ed ex vice presidente di Confindustria nazionale – il passo è breve. Ardita cita dati, date, personaggi che ruotano attorno a un sistema – una sorta di nuova P2, con pezzi di istituzioni impegnate a spiare, mediare, costruire giunte e governi in Sicilia, con il fine di scalare gli altissimi vertici della Nazione – messo su in modo capillare ed efficiente da questo industriale partito dalla provincia per conquistare la Sicilia attraverso l’antimafia di facciata. Il magistrato del Csm va oltre ai fatti, elaborando una spietata analisi del “sistema Montante” e del contesto che lo ha partorito.

Antonello Montante

Lo stesso che ha partorito la “falsa antimafia” – quella che percepisce montagne di finanziamenti per attività inesistenti o quasi, o quella che si fa scudo di questo feticcio, antimafia, per portare avanti i più disparati interessi – che rischia di vanificare il prezioso lavoro di tante associazioni come Libera di don Ciotti, e persone che senza chiedere nulla in cambio hanno dedicato decenni al rinnovamento di un Paese troppo intossicato dalla cultura e dagli interessi mafiosi.

Bellissimi i racconti delle esperienze fatte, attraverso gli interrogatori in carcere con i grandi boss di Cosa nostra. Bellissimi sia perché ci svelano gli aspetti più misteriosi e meno conosciuti di costoro, e perché ci fanno comprendere che esistono magistrati che svolgono il proprio lavoro con intransigenza e umanità.

Luciano Mirone