Viviamo in un Paese meraviglioso. Non a caso abbiamo dato i natali a Pirandello e A Totò, al melodramma e alla commedia dell’arte. Qui dove tragedia e farsa hanno un confine labile, dove l’eccellenza e la minchioneria si alternano in uno psicodramma inevitabile, in questi giorni abbiamo assistito ad un delirio collettivo.
Abbiamo avuto prova, e non ne avevamo bisogno, di come i media entrano nelle nostre case tastando il polso, di come un certo tipo di informazione può muovere i fili dei nervi tesi dell’italica gente. Non entriamo nel merito di cos’è il Covid-19, o meglio noto Coronavirus, dato che siamo già pieni di virologi. Ma sarebbe interessante riflettere su quello che, grazie ai media, è successo nei giorni appena trascorsi.
Da quando, venerdì scorso, in una Lombardia con un clima di manzoniana memoria, sono stati confermati i primi pazienti positivi al virus, e soprattutto alla notizia della prima vittima in Veneto, è stata una escalation di titoloni, speciali tv, zone rosse, quarantene, file alle farmacie e ai supermercati. Di ora in ora, con aggiornamenti al cardiopalma, la pestilenza sembrava sempre più vicina, l’ipocondria nazionale ai massimi storici, i sovranisti a puntare il dito sulle frontiere, gli analfabeti funzionali a gridare al complotto.
Non è necessaria una laurea in comunicazione per capire che le parole che si pubblicano o si dicono in tv sono importanti, che la modalità con cui si comunica una data notizia può avere effetti devastanti sulle menti di milioni di persone.
Ancora una volta Libero ci viene incontro e ci fornisce un’estrema ed esaustiva sintesi di quanto accaduto. “Prove tecniche di strage”: prima pagina, maiuscolo, grassetto. Le altre testate non si spingono a tanto ma seguono la linea del terrore. Ecco alcune prime pagine del 22 febbraio: “Contagi e paura: il morbo è tra noi” (La Nazione); “Virus, il Nord nella paura” (Repubblica); “Italia infetta”(Il Giornale); “Avanza il virus, Nord in quarantena” (Il Messaggero). Titoli che rimbalzano in rete, spalleggiati dalla miriade di parole ed opinioni nel grande calderone dei social.
Ogni canale tv propone il suo “speciale” a caccia di audience, la nota conduttrice del pomeriggio spiega come si lavano per bene le mani e intanto scorre, a caratteri ben evidenti, lo scoop esclusivo di alcuni emigrati che dal Nord sono “scappati” per tornare al Sud.
Sì, le parole sono importanti e l’informazione può diventare un’arma. Nel giro di poche ore, si assaltano i supermercati, si svuotano i locali pubblici, dilaga la paura del cinese, si chiudono le scuole, le università, i musei, gli uffici.
Dal Nord si passa al Sud. A Palermo, per ora solo tre contagi e sono turisti. Ma i turisti, si sa, vanno dappertutto: il sospetto dilaga.
Per rassicurare i cittadini, intanto, Attilio Fontana, governatore di Lombardia, dopo aver avuto notizia di una collaboratrice positiva al virus fa un videomessaggio con tanto di mascherina perché, in queste ore, la profilassi è tutto. Anche telematicamente il contagio è dietro l’angolo.
È chiaro che in questo vortice sensazionalistico si mette in ombra l’attenzione sui dati scientifici, sui numeri di questa epidemia, sulla sua effettiva pericolosità. Nel giro di pochi giorni si teme la paralisi del turismo e dell’economia. Laddove non arriva la pandemia potrebbe arrivare la paura, l’ansia, la cattiva informazione, la speculazione politica.
Sempre Libero ci fornisce altro materiale d’analisi. Ieri, 27 febbraio, in prima pagina, maiuscolo, grassetto: “Virus, ora si esagera.” E come occhiello in rosso: “Diamoci tutti una calmata”. Seguono Repubblica con “Riapriamo Milano”, “Cambia il vento” (il Giornale); “Allarme morbo: scatta il dietrofront” (Il Resto del Carlino).
Nei tg e nei programmi di approfondimento adesso si parla di contagiati asintomatici, di guarigioni, di ritorno alla normalità, di influenze stagionali con un numero ben più alto di contagi e decessi. Eccolo qui il teatrino: un giorno sull’orlo dell’emergenza sanitaria e dopo solo cinque giorni si rinasce. Abbiamo scherzato, non siamo mica nel Medioevo, con due papi e un’epidemia in corso. O forse si?
Marina Mongiovì
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