Perché al processo sul più grosso depistaggio della storia (ovvero le indagini sulla strage di via D’Amelio) l’ex pm di Caltanissetta Annamaria Palma scoppia in lacrime e Fiammetta Borsellino se ne sta impassibile in aula, senza accennare a una minima reazione emotiva?

La strage di via D’Amelio. Sopra: Fiammetta Borsellino

Perché la figlia di Paolo Borsellino non alza neanche un sopracciglio quando l’ex componente del pool di Tinebra – quest’ultimo accusato di essere stato il depistatore numero uno assieme all’ex capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, morti entrambi – dice: “Io a questo Stato ho regalato il 50 per cento della mia salute oltre all’affetto che mi ha fatto perdere di mio figlio per avere poi che cosa? Per essere indagata ingiustamente. Mi scuso, ma questa cosa non la tollero, soprattutto perché mi trovo nelle condizioni di dovere essere attaccata dai familiari del giudice Borsellino che io ho adorato, non la tollero perché profondamente ingiusta”.

Parole che mettono a nudo uno stato d’animo di profonda prostrazione, poiché bisogna considerare che attualmente la dottoressa Palma – sempre nell’ambito degli stessi fatti – è indagata per calunnia aggravata dalla Procura di Messina in concorso con il collega Carmelo Petralia, anch’egli pm a Caltanissetta all’epoca dei fatti.

Annamaria Palma, Giovanni Tinebra e Carmelo Petralia

Per cercare di dare una interpretazione alla distanza siderale intercorsa fra lei e una ex collega di suo padre, bisogna riportarsi ai giorni in cui la Procura nissena – competente per territorio sulle indagini – si inventò di sana pianta un pentito, Vincenzo Scarantino (il quale accusò dei mafiosi che con la strage non c’entravano nulla), per dare in pasto all’opinione pubblica dei colpevoli, ma soprattutto per sviare l’attenzione di tutti dai veri responsabili dell’eccidio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Walter Cosina e Agostino Catalano.

Bisogna rivederli alcuni fotogrammi di quei giorni terribili per cercare di capire lo stato d’animo della figlia di Paolo Borsellino, che ha letto e riletto quelle carte e magari, all’inizio, non avrà creduto ai suoi occhi.

Basta riprendere le 1865 pagine con le quali la Corte d’Assise di Caltanissetta presieduta da Antonio Balsamo ha motivato la sentenza del Borsellino quater (condanna all’ergastolo dei boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, e a 10 anni di reclusione i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia) per comprendere i retroscena di quel depistaggio.

Intanto perché a poche ore dalla strage, Giovanni Tinebra, su input dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi (come è stato ricostruito dai magistrati), contattò il numero tre dei servizi segreti Bruno Contrada, già allora molto chiacchierato ed arrestato cinque mesi dopo con l’accusa di essere vicino alle cosche, per chiedergli di collaborare alle indagini. Peccato però che una prassi del genere – la collaborazione fra 007 e magistrati – è vietata dalla legge, ma siccome l’ansia di verità da parte del dottor Tinebra era fortissima, valeva la pena di fare una forzatura: “E’ appena il caso di osservare – si legge nella motivazione della sentenza – che la rapidità con la quale venne richiesta la irrituale collaborazione del Dott. Contrada, faceva seguito alla mancata audizione del Dott. Borsellino nel periodo di 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia”.

E poi perché il passo per inventarsi un falso pentito come Scarantino è breve, specie se si pensa che un altro 007, La Barbera, agisce dall’interno.

Vincenzo Scarantino

Scarantino è un pregiudicato di mezza tacca del quartiere palermitano della Guadagna, con una intelligenza limitata e un livello di scolarità bassissimo. Basta qualche promessa di benefici futuri e un adeguato lavaggio del cervello per farlo passare per “la gola profonda” che ha confessato gli autori materiali della strage di via D’Amelio. Per vent’anni. E per vent’anni, a causa di queste dichiarazioni, sono state accusate ingiustamente nove persone.

“Deve ritenersi che lo Scarantino – scrivono i giudici di Caltanissetta – sia stato determinato a rendere le false dichiarazioni da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione”.

Vincenzo Scarantino, seguitano i magistrati nisseni, “non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage. E’ quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”. Da chi? Vediamo intanto alcune scansioni temporali relative all’inchiesta.

Il 23 luglio 1994, a quattro giorni dal secondo anniversario della strage, Tinebra dichiara all’Ansa: “Scarantino non ha subito nessun tipo di violenza o di imposizione: si è autonomamente deciso a collaborare, e ciò l’ha fatto in maniera che ci ha pienamente convinti. È un’operazione che conduciamo con consueti, usuali metodi”. Le torture, le minacce, il lavaggio del cervello di cui disperatamente parla il “picciotto della Guadagna”, secondo Tinebra, non esistono.

Peccato che appena tre mesi dopo (13 ottobre 1994) i Pm Roberto Saieva e Ilda Boccassini – allora in servizio alla Procura di Caltanissetta – smentiscano clamorosamente il loro procuratore, parlando di “inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di Via  D’Amelio”, al punto da “riconsiderare il tema della attendibilità di tale collaboratore”. Dunque, nel momento in cui Tinebra e La Barbera portavano avanti il depistaggio, c’era chi, all’interno della Procura, prendeva le distanze dal proprio capo.

È proprio questo il contesto del quale farebbe parte l’ex pm Annamaria Palma. Dina Lauricella del Fatto quotidiano, che assiste alle udienze del Borsellino quater, il 6 giugno 2015 scrive: “L’ex picciotto della Guadagna racconta che l’allora procuratore di Caltanissetta, il dottor Giovanni Tinebra, provava a lenire il suo senso di colpa (di Scarantino, ndr.) spiegandogli che avrebbe dovuto prendere la sua falsa collaborazione come un lavoro, mentre la dottoressa Anna Maria Palma lo consolava spiegandogli che i nomi che lo spingevano a fare, nella fantasiosa ricostruzione della strage, erano comunque colpevoli di altri crimini”.

Una ricostruzione che contrasta con quanto sostenuto l’altro giorno dalla stessa Palma, che in udienza ha parlato di “indagine ingiusta” nei suoi confronti, dicendo di “non tollerare gli attacchi dei familiari del giudice Borsellino”, mentre Fiammetta è rimasta glaciale anche di fronte alle copiose lacrime che rigavano il volto dell’ex pm.

Luciano Mirone