La sua colpa è quella di avere fatto sciogliere un Consiglio comunale per infiltrazioni camorristiche (Orta di Atella, lontanissimo paese in provincia di Caserta, non solo geograficamente) e di aver denunciato la cementificazione selvaggia, e di aver messo a nudo gli affari all’ombra di certi municipi nell’ambito dei vomitevoli connubi fra camorra e politica.

Se i sette colpi di pistola sparati ieri – dopo una serie di minacce – contro il giornalista Mario De Michele, direttore di Campania Notizie, invece di conficcarsi nella sua macchina, avessero centrato il bersaglio, i titoli di testa dei giornali e dei telegiornali sarebbero stati diversi. Fortunatamente Mario si è salvato e già da oggi questa storia comincia a sbiadire dalle redazioni e dalle coscienze di tutti.

Ma è una storia incredibile quella di Mario, come le storie dei giornalisti minacciati, ostracizzati e isolati che vivono al Sud. Storie incredibili perché sconosciute o quasi, guardate con diffidenza, con indifferenza, con ostilità o addirittura con sarcasmo in quelle “comunità malate” dove a contare non è chi fa il proprio dovere, ma il “dominus” che distribuisce la torta: la fettona a quelli più vicini, le briciole a quelli più lontani, ma sempre ossequiosi e ubbidienti.

Storie incredibili perché alla fine il colpevole non è il boss o il politico colluso, ma il giornalista che se l’è andata a cercare. Sembra una cosa surreale, ma è la chiave di volta per comprendere una condizione che molti cronisti di frontiera vivono in una zona consistente di questo Paese a metà fra il Terzo mondo, l’Europa e il Sudamerica. Quando si parla di “questione meridionale” è bene tenere a mente questi fatti. La “questione meridionale” non è solo la storia di un Sud depresso, poco lavoro, fabbriche inquinanti, e tanto altro. No. La “questione meridionale” è anche il fenomeno di un’informazione condizionata dal piombo e dalle minacce, dall’isolamento e dai tentativi di delegittimazione.

Chi non sta al Sud non ha idea di cosa stiamo parlando. Ci sono fatti che si vivono quotidianamente, ma che non balzano agli onori della cronaca nazionale, perché certi padroni del vapore vogliono un’informazione fatta di delitti di gelosia o a sfondo sessuale, e non di attentati o di assassinii nei quali le istituzioni sono coinvolte fino al collo.

Chi parla di Giancarlo Siani, di Beppe Alfano, di Giuseppe Fava, di Giovanni Spampinato, di Cosimo Cristina, di Mario Francese, di Mauro De Mauro, di Mauro Rostagno, delle decine di cronisti scortati che vivono fra Lazio, Campania, Calabria e Sicilia? Chi si occupa di quelli non scortati che quotidianamente si sorbiscono gli sputi e le ingiurie del potere? Chi approfondisce vicende come la Trattativa Stato-mafia o come il delitto dell’agente di polizia Nino Agostino o dell’urologo Attilio Manca?

In compenso conosciamo vita morte e miracoli di Bossetti, di Parolisi, di Logli, di Cosima Serrano, di Sabrina Misseri, serviti in tutte le salse e in tutte le TV, con tanto di criminologi, di psicologi, di investigatori, di plastici in studio per ricostruire “le dinamiche del delitto”, che infiammano la fantasia di un’opinione pubblica sempre più morbosa, sempre più ottenebrata, sempre più privata del suo senso critico, che alla fine scatena sui Social le sue frustrazioni contro gli immigrati i quali, come gli ebrei, rappresentano il capro espiatorio dei fallimenti di una società malata.

Quanto sarebbe bello se Bruno Vespa o La vita in diretta o Barbara D’Urso facessero delle indagini a trecentosessanta gradi sul delitto di un giornalista o sulla vita pazzesca che vive costui in certe regioni del Sud o sulla storia di un grande giornalista come Riccardo Orioles o su certi delitti che sono il paradigma di questo Stato a democrazia dimezzata. Non “una botta e via” per mettersi in pace con la coscienza (come succede spesso), ma un riflettore tenuto costantemente acceso per tenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica, in modo da evitare che dall’ostracismo si passi alla minaccia, dalla minaccia alla scorta e dalla scorta all’omicidio.

Luciano Mirone