Periferie, quartieri in cui l’elemento terra era una costante presenza. Erano i primi anni sessanta, il boom economico stava arrivando anche da noi, coprendo d’asfalto strade, ricordi, emozioni.  

Pippo era un bambino di terra, noi tutti lo eravamo. Ci si scaldava attorno alla brace, raccolta dentro un recipiente di rame che chiamavamo “a conca”,  con il pane e le olive messe lì ad arrostire, mentre il vecchio del quartiere ci raccontava “i miniminagghi”, storie di vita, aneddoti, quando il siciliano era la lingua parlata e non un lessico di cui, oggi, quasi tutti si vergognano. Noi, scugnizzi con le nostre innocue bande di quartiere, a difendere, con arco e frecce, e fionde fatte in casa, il falò che la sera della vigilia dell’Ascensione sarebbe stato acceso al tocco delle campane.

Pippo vigilava, superbo, nel suo arco appeso alle spalle, girando attorno al mucchio di legna che per l’intero pomeriggio, bambini, ragazzi e qualche adulto, avevamo cercato nelle campagne adiacenti. Io lo incrociavo nel giro che facevamo attorno al grande mucchio, come vere sentinelle, attenti che la banda rivale del quartiere accanto non lo appiccasse anzitempo. Una bandierina italiana di carta, colorata da me, stava in cima, a sventolare  il nostro orgoglio di veri uomini.

Intanto gli anziani si disponevano a cerchio attorno al fuoco, nelle loro seggiole di paglia, ognuno con la propria storia da raccontare. La primavera ci regalava profumi che ormai non sento più, mentre lanciavamo i nostri aquiloni in alto, fino a diventare un puntino colorato e scomparire nella nostra meraviglia, immensa quanto il cielo.

Ognuno col proprio aquilone, costruito con diligenza e con l’aiuto di un adulto, e con la farina al posto della colla. Ogni cosa, per quanto semplice e rudimentale, diventava giocattolo, divertimento, come la pistola che esibivo contento. L’avevo dipinta sul freno a mano dell’ape di mio padre e, nei nostri giochi western, amavo sempre fare la parte del cow boy in una rissa di saloon, per poi estrarre il revolver-freno a mano, e sparare imitando il sibilo dei proiettili.

Il padre di Pippo era un contadino a giornata, esile e abbronzato come un marinaio. Odorava di fieno e sudore, quando nelle sere d’estate s’intrufolava  nei nostri giochi e, con la mano magra e ruvida, scompigliava i capelli del figlio, mentre con voce che fingeva autorità gli diceva: “amuninni, u manciari è prontu. A mamma ni sta aspittannu.” 

“Talìa chi fici” mi disse indicandomi un vecchio copertone d’auto. Aveva dipinto di bianco i lati della gomma. “Assira i visti na televisioni da signora Aitina” mi confidò. L’unica del quartiere ad avere la televisione era la signora Agatina e, quando c’era Canzonissima, tutto il vicinato si riuniva attorno a quell’apparecchio miracoloso, ognuno portando la propria sedia. Volavano commenti, battute di scherzo, fischi, applausi e qualche “ sciiii…farcitimi sentiri sta canzuni”.

Pippo portava orgoglioso il suo copertone nelle nostre furiose gare e, ad un via!, partivamo di corsa correndo e colpendo con un bastone ognuno la propria gomma, chi quella piccola di una cinquecento, chi, invece, quella di una macchina di cilindrata più grossa. Una nuvola di terra ci accompagnava per tutta la gara, fin quando, a sera, eravamo neri come i batussi.

Finita l’estate, finivano le amate vacanze. La scuola arrivava puntuale, con il sussidiario che mi piaceva leggere e odorare. Osservavo sempre le immagini storiche. Ne annusavo l’epica, le gesta eroiche, la corposità di quelle pagine.

Pippo voleva studiare. Mi diceva sempre che da grande voleva fare il dottore. Intendeva il medico, “u dutturi”. Poi arrivarono le biciclette, e lasciammo i bastoni per i manubri. Mio padre non resistette alle mie continue richieste di averne una tutta per me, dopo averla vista una sera d’estate ad un mio cugino che, gentilmente, mi fece fare alcuni giri nel cortile dei miei.

Nel giorno dei morti che, tradizionalmente, era il giorno dei regali, mi regalò una Bianchi. Quando la sera andavo a letto, me la portavo accanto a me e, raggiante di felicità, mi addormentavo con la mano sul manubrio.

L’estro di Pippo, ancora una volta, esplose nella sua due ruote, non contento di avere una comune bicicletta. Voleva che fosse da corsa, convinto che bastava tenere la schiena piegata sul manubrio per vincere nelle gare di quartiere. Estrasse il sellino e, da un fabbro, lo fece allungare con un tubo dell’acqua. Si lanciava all’impazzata gridando “minchia che forti a me bici!”. Cercava di rifarsi delle perdite al gioco “de ciappeddi”. Perdeva quasi sempre, non avendo una buona mira. Era qualcosa di simile alle bocce, con la differenza che al posto del pallino ci stava un frammento di mattonella,  posizionata in posizione verticale per poterci mettere sopra alcune monetine. Ognuno di noi lanciava il suo frammento, con l’unico obiettivo di colpire il bersaglio e vincere il malloppo.

In molte cose eravamo uguali, io e lui. Persino nella corporatura, che non ci aiutava di certo quando, nel gioco del quattro e quattr’otto, dovevamo sostenere qualcuno più in carne di noi. Si iniziava col pari o dispari, chi vinceva doveva saltare sulla schiena degli altri che, in fila come le processionarie e con la testa in giù praticamente appoggiata sul sedere dell’altro, dovevamo sopportare il più possibile il peso che avevamo addosso. Il primo della fila stava col capo tra le gambe della “mamma”, il più fortunato che, seduto comodamente contava dal momento in cui l’ultimo ci saltava addosso. Quelli che resistevano vincevano un ulteriore giro di saltatori, mentre i perdenti dovevano ancora una volta stringere i denti e cercare di avere gambe abbastanza forti e rigide per cadere a terra il più tardi possibile.

Pippo mugugnava e, tra qualche “ahi!” e un “minchia…ma…quantu… si.. pisanti”, sparava fuori tutta la sua forza. A fine gioco eravamo a pezzi, mentre frasi di sfottò del tipo “ femminucce! Cu vuatri nun c’è partitu”, volavano leggere nell’aria fresca della sera.

Una mattina il sole si nascose dietro le nuvole, per non vedere. Una pioggia cadeva fitta e affilata come infiniti rasoi, bagnando la strada principale, l’unica del quartiere ad essere asfaltata. L’aria ferma, silenziosa, fu squarciata da un botto inusuale, di lamiere contorte e vetri infranti. Tanta gente, grida, e una macchina di traverso contro il muro. Pochi minuti e la folla si fece da parte, aprendosi come tagliata da un invisibile coltello, silenziosa, bagnata.

Pippo stava tra le braccia del padre, con la testa riversa di lato e il volto irriconoscibile annegato nel sangue. L’uomo avanzava lentamente, il viso contratto, chiuso in un silenzio di urla. Qualcuno aprì le portiere di una macchina. Il padre lo depose con cautela sui sedili, cadde in ginocchio davanti ad un destino che non ha pietà, nemmeno di un bambino, un bambino di terra che sognava di fare il dottore. Le gambe penzolavano inermi, magre come il ricordo che mi porto da anni. L’uomo guardava le nuvole, gli occhi sgranati, la bocca spalancata nel tentativo di emettere un suono, una parola.

Finchè un urlo sbottò nell’aria immobile, facendosi strada tra la pioggia e le lacrime. Pippo era andato, col padre, in salumeria. Aveva una coca cola in mano, quando l’auto troncò per sempre i suoi anni verdi. La bottiglia si ruppe e gli tagliò la gola. Pippo, bambino di terra, ucciso dalla macchina, dall’asfalto e dalla coca cola.

Mario Testa