Confessiamo che ieri sera, quando tutto l’olimpico era per De Rossi, noi pur simpatizzando per “il capitano”, eravamo con la Curva Sud, che si è commossa per Ranieri, al quale ha riservato un bellissimo e affettuoso striscione.

Lo striscione dei tifosi della Roma dedicato a Claudio Ranieri. Sopra: il tecnico della società giallorossa

Ranieri, ovviamente, è Claudio, tecnico della Roma, al quale oggi vogliamo dedicare questo articolo. Non solo perché lo stimiamo, ma perché Ranieri rappresenta, secondo noi, quella tipologia di persona che vale (e pure molto), ma non raccoglie quanto merita. Beninteso: ha fatto e fa grandi cose, ma a nostro avviso, il nostro calcio gli deve molto.

Ranieri lo ricordiamo da calciatore, quando militava nel mitico Catanzaro di Palanca (ricordate Massimo Palanca “o rey”, minuscola ala sinistra che segnava dalla bandierina del calcio d’angolo?).

Massimo Palanca

E non è vero – come dice qualcuno – che quando giocava era un po’ grezzo. Era un ottimo difensore, adattabile come terzino sia sulla fascia destra, che su quella sinistra, e anche al centro, come stopper e come libero (oggi si direbbe centrale). Un calciatore del genere, se non è forte, non puoi usarlo come jolly, non c’azzezza.

Ranieri era cresciuto nella Primavera della Roma come ala destra, ma in quel ruolo non andava bene, sicché, ancora giovanissimo, fu ceduto al Catanzaro, allora in serie B.

In Calabria capirono (probabilmente fu l’allenatore Gianni Di Marzio a intuirlo per primo) che Claudio sarebbe stato un formidabile difensore: il suo gioco necessitava di un punto di riferimento nelle retrovie (con l’attaccante avversario da marcare), per valorizzare la sua velocità nelle ripartenze.  Intuizione geniale. Ranieri in quel ruolo fu strepitoso.

Quando i giallorossi furono promossi in A, Ranieri fu – assieme a Palanca, Improta, Maldera, Silipo, Vichi, Pellizzaro – il simbolo di una squadra che all’epoca (eravamo all’inizio degli anni Settanta) rappresentava il riscatto di un Sud povero ma bello. Povero per i guai economici che ha sempre avuto. Bello per la gestione oculata che un signore d’altri tempi – un altro mitico personaggio, il presidente Nicola Ceravolo – impresse all’Unione sportiva Catanzaro. Niente spese pazze, bilanci in ordine, un fiuto straordinario per gli acquisti dei calciatori, prelevati quasi sempre dalle Primavere dei grandi club o dalle serie inferiori e lanciati in B o in A. Secondo le voci che correvano a quei tempi, la società giallorossa chiudeva i bilanci sempre in attivo, come pochi altri sodalizi in Italia.

L’ex presidente del Catanzaro Nicola Ceravolo con Pelè

La scelta di acquistare Ranieri si rivelò vincente. Quando al “Militare” (lo stadio di Catanzaro, oggi intitolato al mitico presidente) venivano i grandi campioni, dovevano farsela alla larga da lui, perché non toccavano palla. Basta chiedere ai vari Causio, Bruno Conti, eccetera, cosa combinavano quando a marcarli era Claudio da Testaccio.

Poi il Catanzaro retrocesse in serie B. Per Ranieri arrivarono le richieste dei grossi club, ma Ceravolo – intenzionato a non smantellare il giocattolo perché voleva tornare subito nella massima serie – non cedette ai tanti soldi che gli venivano offerti su un piatto d’argento. Ranieri quella volta s’incazzò e si rifiutò di andare in ritiro precampionato con la squadra, rilasciando dichiarazioni come queste: “Sono un calciatore da A. La società non rispetta le mie esigenze”.

Ma Ceravolo non cedette neanche stavolta, costringendo Ranieri a tornare all’ovile un paio di mesi dopo, e a dare un contributo determinante per il ritorno in serie A.

E però siccome Ranieri giocava col Katangaro (appellativo ironico usato da Gianni Brera alla Domenica sportiva), le porte della Nazionale non furono aperte a lui, ma a un altro Claudio, Gentile (marca Juve targata avvocato), difensore dai piedi rozzi, ma implacabile nella marcatura a uomo, che ai mondiali di Spagna dell’82 – quando ci laureammo campioni del mondo – fermò nientemeno che Maradona, che non era forte quanto il quasi omonimo katangarese, ma comunque era grande lo stesso. Giudizi personali, ovviamente.

Ranieri quando militava nel Catanzaro

Quando Ranieri smise di giocare, fece quello che era naturale che – per temperamento, equilibrio e preparazione – facesse: l’allenatore. Mica di un club di A o di B, e neanche di C, ma di una squadretta che militava nell’Interregionale calabrese: il Nicastro. Che portò subito nella categoria superiore.

Le voci dell’enfant prodige che comincia ad affermarsi nel mondo del pallone si spargono subito, e Ranieri, poco tempo dopo, fa un incredibile salto di qualità:  Fiorentina, serie A, ottime cose anche lì. È l’inizio di una grande carriera. Dopo alcuni anni trascorsi fra l’Italia e l’estero, le grandi società gli aprono le porte: con la Juve e con la Roma sfiora lo scudetto, ma non riesce a vincerlo perché davanti c’è Inter di Mourinho (ricordate il triplete?).

A Torino, dove si deve vincere a tutti i costi anche se non hai giocatori all’altezza, non gliela perdonano. Addirittura Tuttosport gli dedica la prima pagina: “Ranieri vattene”, incurante del fatto che i risultati si ottengono con la qualità dei calciatori, non con le chiacchiere e il distintivo.

All’estero – almeno dove il calcio si fa più seriamente di qui – Claudio viene osannato e vince addirittura lo scudetto. Non nella serie A del Liechtenstein, ma nel massimo campionato inglese, uno dei migliori del mondo: col Leicester, una squadretta che ad inizio campionato avrebbe gridato al miracolo se si fosse salvata: e invece con Ranieri va in paradiso.

I Soloni di casa nostra non sanno usare di meglio: “Fortunato”. Balle. Uno scudetto vinto in Premier League e due secondi posti in Italia, non sono fuochi di paglia. Sono i risultati del lavoro di un allenatore che ha fatto la gavetta partendo dai campi polverosi della lontana Calabria. E però, qualcosa, rispetto a qualcuno considerato “grande” in Italia, gli manca: il fumo. Ecco perché esprimiamo il gioco più noioso d’Europa.

Luciano Mirone