“Nonostante i miei 88 anni e le mie condizioni di salute, sono qui per dare un contributo alla giustizia: ho denunciato 12 anni fa il tentativo di depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio”. Lo ha detto Bruno Contrada deponendo a Caltanissetta al processo sul depistaggio delle indagini relative all’uccisione di Paolo Borsellino in cui sono imputati per calunnia aggravata tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. “Oggi voglio aggiungere una cosa – ha detto Contrada – prima di entrare nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per espiare la pena per la quale ero stato condannato l’11 maggio 2007, alla fine di marzo venni qui a Caltanissetta, accompagnato dall’avvocato, per presentare un esposto querela accusando criminali, mafiosi pentiti, ufficiali dei carabinieri, funzionari di polizia, facendo nomi e cognomi. Tutto documentato, dove si provava in maniera inconfutabile che c’era stato un tentativo di depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio”.
Ansa
Caro Luciano, sai che non amo la ribalta, ma l’ennesima “lezione” di civismo del dott. Contrada – del quale mi onoro di essere stato allievo alla Scuola Superiore di Polizia negli anni ‘70 – mi induce a rimembrare lo strame di giustizia e diritto che usavan fare taluni magistrati e giudici istruttori in certi distretti giudiziari, primo fra tutti quello di Caltanissetta, nell’ultimo ventennio del secolo scorso.
Altrettanto potrei dire, assumendomene
piena ed esclusiva responsabilità, della procura di Catania dove, sempre in quegli anni, ho presentato una circostanziata denunzia per crimini, falsi, macroscopiche omissioni e favoreggiamenti personali – perpetrati specialmente in favore di altri
giudici ed ufficiali di polizia giudiziaria considerati, forse, “amici” – commessi da importanti rappresentanti dell’Ordine giudiziario del rito nisseno capitanati da quel procuratore Patanè, mai considerato luminare del diritto e da alcuni suoi accoliti e sodali mai ritenuti vestali della più stretta legalità.
Il procuratore di Catania di allora, di cui purtroppo non ricordo il nome, non esitò ad “insabbiare” – è questo l’unico termine appropriato – quella mia denuncia, pur dettagliatamente circostanziata e saldamente ancorata a chiari e precisi riferimenti ad atti giudiziari puntigliosamente allegati nonché a documenti ufficiali inconfutabili richiamati.
L’unica conseguenza giuridicamente e giudiziariamente possibile di tale
“archiviazione” avrebbe dovuto essere ineluttabilmente la mia incriminazione per calunnia ed acclarata diffamazione nei confronti di quegli appartenenti al sistema giudiziario nisseno da me citati, adusi a smerciare scampoli di diritto a prezzi stracciati.
Ma neanche questo è successo, per cui delle due l’una: o in procura a Catania hanno impudentemente sbagliato a non avviare l’indagine sui loro colleghi o hanno scientemente e coscientemente omesso di procedere contro di me, commettendo un altro enorme errore.
Con stima.
Giorgio Collura