Quando nei giorni scorsi il vice premier Luigi Di Maio ha apostrofato i giornalisti come “puttane”, “sciacalli”, “pennivendoli”, eccetera eccetera eccetera, non mi sono indignato, perché non sono una puttana, né un pennivendolo, né un infame. Ho solo provato costernazione per il linguaggio usato da un uomo delle istituzioni nei confronti di “tutti” i giornalisti che verso il M5S – e nel caso specifico verso il sindaco di Roma, Virginia Raggi – sono stati tutt’altro che teneri.

E però bisogna distinguere: se da un lato ci sono giornalisti che fanno delle inchieste oneste raccontando i fatti (su tutti i partiti, compreso il M5S), da un altro lato ci sono giornalisti che scrivono sotto dettatura pur di fare gli interessi del proprio padrone. Che in Italia non è l’editore puro. Da noi il proprietario di una testata è legato spesso ai poteri forti.

Da sempre l’Italia ha oscillato fra casi esemplari di libertà di stampa e casi altrettanto esemplari di leccaculismo sfociati in vere e proprie complicità (altro che puttane!) nei confronti di un potere eversivo che ha cercato di sovvertire le regole democratiche attraverso le bombe e gli omicidi eccellenti.

L’errore del vice premier è quello di mettere tutti nello stesso calderone e di usare un linguaggio che un uomo di Stato non può permettersi, sia nei confronti dei giornalisti (onesti e disonesti), sia nei confronti di chicchessia.

Il Presidente della Repubblica lo ha ripreso, seppure indirettamente, dicendo che il pluralismo dell’informazione è indispensabile in un Paese democratico. Una frase da uomo delle istituzioni, venata, a nostro avviso, da un pizzico di ipocrisia, che in certi momenti è ingrediente indispensabile per dirimere i conflitti e distinguere l’uomo delle istituzioni dall’uomo della strada.

È vero che il pluralismo fa bene alla democrazia, ma è anche vero (e Mattarella lo sa benissimo, poiché anche lui ha pagato un prezzo altissimo con l’uccisione del fratello, l’ex presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella) che negli ultimi decenni questa democrazia è stata pesantemente intossicata e condizionata da Gelli, da Berlusconi, dai servizi segreti deviati, dal neofascismo, da Cosa nostra, dalle stragi, dagli assassinii eccellenti, dalle Trattative. Fenomeni da non considerare “altra cosa” rispetto allo Stato. E certo giornalismo non ne è stato affatto estraneo.

Se non si comprende tutto questo, non si comprenderà mai il ruolo dell’informazione in questo Paese. Non ci comprenderà mai perché sono morti Fava, Impastato, De Mauro, Spampinato, Cristina, Alfano, Francese, Rostagno, Casalegno, Tobagi, Ilaria Alpi, Pasolini, Pecorelli. Non si comprenderà mai perché – specie al Sud – ci sono cronisti sotto scorta e cronisti isolati da un sistema che li considera corpi estranei rispetto al quieto vivere e agli affari mafiosi che si portano avanti.

Pur aborrendo le parole di Di Maio, non sono sceso in piazza: non mi va di difendere “tutta” la categoria,  formata nella stragrande maggioranza da persone coraggiose e perbene. Ma smettiamola di fare questa difesa corporativa di “tutti”. Le storie di tanti valorosi cronisti non può essere confusa con quella di chi – per dirla con Fava – “per vigliaccheria o per calcolo ha sulla coscienza tutti i dolori umani che non è stato mai capace di combattere”.

Nella foto: un’opera del grande pittore Bruno Caruso

Luciano Mirone