Lo scoop che ieri sera la trasmissione di Rai1, “Nemo”, ha mostrato a milioni di italiani in merito al polo petrolchimico di Gela e alla montagna di rifiuti radioattivi che – secondo il signor Emanuele, ex operaio degli stabilimenti siciliani – sono stati sotterrati per anni in presenza di falde acquifere (causando le percentuali di tumori e di malformazioni di bambini più alte d’Europa), ci ha indignati, ma non ci ha meravigliati più di tanto.

Quello che il signor Emanuele ha dichiarato – rompendo il muro di omertà che dagli anni Cinquanta circonda lo scandalo del polo petrolchimico di Gela – ci conferma il livello di cinismo di certo capitalismo nostrano che tra il profitto e il progresso non ha dubbi su cosa scegliere, e mentre le ruspe interrano quintali di rifiuti velenosi, dice con nonchalance, “qui fra cinquant’anni moriranno tutti di tumore”, come se si stesse pronosticando il risultato di una partita di calcio.

Il polo petrolchimico di Gela. Sopra: il signor Emanuele mentre denuncia l’interramento dei rifiuti radioattivi dello stabilimento petrolchimico

Un po’ come, fra una risata e l’altra, qualche anno orsono, capitò a un paio di affaristi beccati in amabile conversazione pochi minuti dopo il terremoto de L’Aquila: “Il momento per far soldi è propizio”.

La differenza con i mafiosi non è poi tanta se si pensa che alcuni anni fa al largo di Cetraro, in Calabria, dopo l’affondamento di un peschereccio della ‘Ndrangheta, pieno di rifiuti radioattivi, i due boss commentavano al telefono: “Ti rendi conto, in quel mare i nostri figli adesso faranno il bagno”. “E noi li mandiamo in vacanza alle Maldive. Che te ne fotte. A noi i soldi ci interessano”.

E i camorristi? Hanno usato lo stesso cinismo quando per anni hanno interrato tonnellate di rifiuti radioattivi in Campania provocando un disastro incalcolabile all’ambiente e alla vita delle persone. Di casi come Gela l’Italia è piena.

Leggete cosa dichiara ancora l’ex operaio Emanuele alle telecamere di “Nemo”: “Mi facevano pestare l’eternit. Io li macinavo tutti con i cingoli e poi li andavo a sotterrare. Tutte queste cose che tiravano fuori dai forni sono tutti là”. E poi: “Scaricavano i camion, tutti i rifiuti dello stabilimento. C’erano anellini di ceramica per i reattori. I buchi erano da cinquecento metri quadrati e profondi una quindicina di metri. Tutto il materiale andava nella falda acquifera. Qui di vecchiaia non muore più nessuno. Muoiono i giovani. E io sto confessando tutto questo perché sono arrivato al capolinea”.

Eppure, in questi anni, ci sono stati cittadini, a Gela come altrove, che non hanno aspettato il “capolinea” per denunciare. Lo hanno fatto perché non vogliono che i loro figli e loro stessi si ammalino di tumore.

Il problema tragico è che lo hanno fatto da soli, circondati dall’indifferenza (nella migliore delle ipotesi) o dall’ostilità (nella peggiore) degli stessi abitanti. Perché in una Terra come la Sicilia – dove fino a mezzo secolo fa la povertà si tagliava col coltello – ci sono ancora persone che dicono: “Meglio morire di cancro che morire di fame”. Il fatto drammatico è che la politica, affiancata da certa magistratura, ha sempre detto le stesse cose. Ci auguriamo che a Gela si faccia giustizia, ma è ora che la politica cambi rotta. E pure i cittadini.

Luciano Mirone