L’estremo saluto al grande pugile italo-tedesco Graciano “Rocky” Rocchigiani rischia di finire in rissa al cimitero di Belpasso a causa di un gracile giornalista tedesco della “Bild” che – secondo i familiari e gli amici del campione – si sarebbe intrufolato in sala mortuaria per fotografare la salma che per quattro giorni ha riposato nel camposanto di questo paese fra l’Etna e Catania, nel cui territorio, nella notte di lunedì scorso, è morto a causa di un incidente stradale.

Sì, l’estremo saluto al grande pugile che tutta la Germania sta piangendo da quattro giorni, finisce con una ferita al naso di questo cronista della “Bild”, un telefonino “sequestrato” momentaneamente per cancellare i file “incriminati” (che comunque potrebbero essere partiti lo stesso), e questo gentile cronista tedesco che sparisce immediatamente dalla circolazione per destinazione ignota. E pensare che proprio lui, per due giorni interi, stoicamente, con biro e taccuino, ha stazionato al cimitero alla ricerca degli “spunti giusti” per lo scoop. Dove sia andato non si sa (forse al pronto soccorso?); e non lo sanno neanche i carabinieri giunti sul posto poco dopo, allertati da qualcuno che vuole rimanere anonimo.

Graciano Rocchigiani oggi. Sopra: il pugile quando divenne campione del mondo

Nel piccolo slargo antistante la sala mortuaria dove riposa l’ex campione del mondo, ci sono la compagna siciliana, una donna molto più giovane di lui, minuta, bruna (residente a Paternò, un paese a otto chilometri da qui) da cui Rocchigiani ha avuto due figli, ma di cui non c’è una minima traccia (né una foto, né un post, né un messaggio) nelle pagine facebook; la figlia della prima moglie; la sorella del pugile, il marito di quest’ultima, un amico ex pugile originario di Crotone ma residente in Germania da diversi decenni, qualche altro familiare paternese della compagna. Tutti visibilmente distrutti, specie la figlia, che quando vede il padre ridotto in quelle condizioni non si dà pace, esce nel viale del cimitero e urla sotto la pioggia incessante. Stessa reazione la compagna del pugile, ma con un incedere diverso, più mediterraneo.

Fa una certa impressione trovarsi in questo piccolo paese alle pendici dell’Etna che per qualche giorno ha conservato le spoglie di un mito del popolo tedesco. Un mito che ha vinto 41 incontri su 48, ne ha persi 6, ne ha pareggiato uno, riuscendo a sbancare il gotha del pugilato statunitense, diventando campione mondiale dei mediomassimi Wbc ed ottenendo dal giudice americano Richard Owen della Corte distrettuale di Manhattan un risarcimento record di 30,3 milioni di euro, che allora ha mandato il Wbc sull’orlo della bancarotta. Peccato che dopo alcuni anni in bancarotta si sia trovato lo stesso pugile per l’incapacità di gestire quella montagna di soldi che dissipa in modo inspiegabile, riducendosi da alcuni anni col sussidio statale.

Fa impressione intravedere il campione morto, quando la porta della sala mortuaria è aperta, a distanza di appena tre metri, dentro quella bara di mogano, con i segni dell’incidente stampati sul viso. Una impressione incredibile. Che si misura col dolore straziante dei familiari e degli amici, lo stesso di un tedesco che in queste ore sta leggendo e guardando avidamente giornali e televisioni per cercare di capire come è successo, perché è successo, perché la sera dell’incidente il pugile era ubriaco, dato che tutti, in Germania (almeno nell’ambiente pugilistico), dicevano che Rocky, con la nuova compagna, si era messo la testa a posto; se ci sarà un’autopsia, se l’investitore non l’ha visto perché la strada era al buio.

Un dolore che si misura attraverso il tentativo di un cronista particolarmente curioso di entrare in sala mortuaria per fare un ultimo scatto da consegnare al popolo tedesco, come fecero i fotografi giunti alla Quebrada de Churo in Bolivia che ripresero il volto di Che Guevara ormai morto, dopo lo scontro con l’esercito che lo aveva ucciso. Certo, è un azzardo paragonare il “Che” ad un grande pugile, però in fondo non c’è solo la voglia di uno scoop. C’è l’inappagabile esigenza di consegnare un’immagine al mito. E il mito non conosce nasi feriti, file cancellati, pronti soccorso. Il mito va oltre il tempo e la storia, perché ti consegna all’eternità. E quel giornalista ha sfidato dei parenti particolarmente incazzati, pur di fotografare un mito. Onore al merito.

Tutto questo nella lontana Sicilia non si percepisce, poiché in Italia il mito di Rocchigiani non è arrivato. Al cimitero, oltre ai familiari, a qualche sparuto giornalista e alla gente comune che porta dei fiori ai propri parenti, si respira un’aria di quotidianità.

Ed è un peccato, perché Rocchigiani apparteneva (ed appartiene) anche al nostro Paese essendo figlio di genitori sardi e, come dice Luigi (l’amico calabrese partito dalla Germania per rendergli l’ultimo saluto), era orgoglioso delle sue origini, tanto da indossare, durante i combattimenti, la bandiera italiana, dopo, ovviamente, quella tedesca.

Di una cosa in Germania sono sicuri: sarà solo questione di tempo, ma prima o poi su Graciano “Rocky” Rocchigiani qualcuno girerà un film. Troppo personaggio per essere dimenticato, perché dell’eroe, questo pugile rissoso, galeotto per ventidue mesi e amante dell’alcol, ma infinitamente generoso e onesto (secondo quanto viene detto dai giornalisti), ha tutto. Non dell’eroe senza macchia e senza paura, ma dell’“eroe maledetto”, che forse, per uno strano meccanismo dell’inconscio, l’immaginario collettivo è portato ad amare e a sublimare ancora di più, come è successo ad un altro leggendario pugile (anche lui originario dell’Italia, ma americano di adozione), Jack La Motta, il “Toro scatenato” del grandioso film di Scorsese. Rocchigiani non se ne è andato giovane, ma neanche vecchio, quindi è possibile che anche la morte prematura contribuirà ad alimentare il mito.

Non solo un film, ma anche dei libri si scriveranno su Rocchigiani, possiamo starne certi. Libri dove si spiegherà che quel maledetto lunedì 1 ottobre 2018 – in base a quanto ricostruito dagli inquirenti  – “Rocky” era stato visto da diversi testimoni in evidente stato di ubriachezza: prima in un locale del centro commerciale Etnapolis, poi in un bar di una stazione di servizio a qualche centinaio di metri: in entrambi i posti avrebbe chiesto da bere e poi – dice qualche testimone – avrebbe lasciato sul bancone delle foto autografate che lo ritraevano nel momento in cui si era aggiudicato la corona di campione del mondo. Una signora che quella sera si trovava al bar, il giorno dopo avrebbe portato una di quelle foto al camposanto di Belpasso: “Mettetela sulla bara, è la foto di un campione”.

Strano che dopo aver lasciato i due locali, Graciano si sia messo a percorrere la strada a scorrimento veloce Catania-Paternò. Non con la macchina, ma a piedi. Chi si avventurerebbe a percorrere a piedi una strada nella quale le macchine sfrecciano a centoventi all’ora? Strano se sei lucido, ma se hai bevuto non è strano nulla. E così una Smart, a causa del buio, intorno alle 23,30 di quel maledetto giorno lo ha travolto. I dipendenti dell’agenzia delle pompe funebri che hanno ricomposto la salma parlano di corpo devastato in più parti, sul quale il magistrato ha ritenuto di non effettuare l’esame autoptico.

A casa, quella notte, non lo vedono arrivare e naturalmente si preoccupano, magari si sarà fermato a mangiare qualcosa, ma intanto le ore scorrono e “Rocky” non arriva, lo chiamano al telefonino e non risponde. Mezzanotte-l’una-le due-l’alba. La compagna si reca dai carabinieri per denunciarne la scomparsa la mattina, quando ormai il pugile è morto da parecchie ore.

Oggi al cimitero era disperata, soprattutto con i giornalisti che non avrebbero rispettato la privacy della sua famiglia, pubblicando le foto dei due figlioletti senza l’accortezza di schermarne almeno il viso. Ecco quell’aggressività nei confronti del cronista della “Bild”. La donna chiedeva ai dipendenti del cimitero di chiudere la porta della sala mortuaria per evitare occhi e obiettivi indiscreti. Una porta che per quattro giorni – dicono gli stessi dipendenti – è rimasta incustodita, anche se il cadavere è stato nella cella frigorifero. E questo può andar bene per un comune mortale, non per un mito.

Luciano Mirone

 

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