“Nell’estate inquieta del 1988, la mattina del 14 settembre, viene ucciso a Trapani il giudice Alberto Giacomelli, che da più di un anno ha lasciato la toga per andare in pensione. È, a tutti gli effetti, un delitto «senza»: senza clamore, senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni. Un delitto senza memoria, inghiottito da depistaggi, omertà, ignoranza e, sullo sfondo, l’ombra cupa di Totò Riina”.

E’ l’incipit della quarta di copertina del libro “Un uomo perbene” di Salvo Ognibene (EDB editore, con prefazione di Attilio Bolzoni), dedicato alla figura del giudice Alberto Giacomelli. 

“Giacomelli – si legge – era presidente delle misure di prevenzione del Tribunale, un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Uno che dietro il sipario decideva i destini economici di quei «galantuomini» e che aveva messo la firma su un patrimonio che, per volontà e in nome del popolo italiano, non doveva più appartenere alla mafia. Lontana dalle attenzioni dei cronisti e dalle luci degli studi televisivi, la storia di Giacomelli viene ora riconsegnata alla memoria grazie ai ricordi di chi lo ha conosciuto”.

Quella che segue la prefazione del giornalista di “Repubblica”, Attilio Bolzoni.

Il giudice Alberto Giacomelli. Sopra: la copertina del libro di Salvo Ognibene

Sono due gli anni siciliani che annunciano quello che possiamo definire l’“atto finale”, le stragi d’estate del 1992, prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino. Sono due gli anni, il 1988 e il 1989, che sono serviti a “preparare” il cratere di Capaci e lo sconvolgente attentato – appena cinquantasei giorni dopo – di via Mariano D’Amelio. Me la ricordo quella Sicilia, me la ricordo bene quella Sicilia dell’88 e quella Sicilia dell’89. Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, “menti raffinatissime”,  misteri che hanno fatto tremare un’isola e anche l’Italia.

Trent’anni fa, era cominciato male l’anno a Palermo. Gennaio non era ancora finito e avevano ucciso Giuseppe Insalaco, un ex sindaco, un uomo politico che aveva deciso di denunciare le trame intorno ai grandi appalti, sempre gli stessi nomi, sempre le stesse protezioni, sempre gli stessi oscuri legami fra un Palazzo e l’altro. Insalaco lasciò un “diario” con il suo grido di dolore e le sue accuse, due liste di nomi, da una parte i “buoni” (fra i quali il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, ucciso; il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso; il consigliere istruttore Cesare Terranova, ucciso; il segretario regionale del Pci Pio La Torre, ucciso) e dall’altra i “cattivi” (fra i quali l’europarlamentare Salvo Lima, il Presidente Giulio Andreotti, il procuratore capo della Repubblica Vincenzo Pajno, l’esattore mafioso Ignazio Salvo) e in mezzo una Palermo sprofondata nella paura. Dei sicari di Totò Riina e dei loro complici, invisibili gli uni e gli altri ma presenti in una città sospesa fra il suo passato e il suo futuro.

Il maxi processo si era chiuso un anno e un mese prima con le prime e decisive condanne per la Cupola, l’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte di Assise, in tanti però “speravano” nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone. Era già arrivata la stagione del “disincanto”. Era passato appena un anno dalla fine del  maxi processo e sembrava un secolo.

Fu in quella primavera che a Roma decisero di scavare la fossa istituzionale a Falcone. A Palazzo dei Marescialli, la sede del Consiglio Superiore della Magistratura. Al posto di Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che aveva sostituito Rocco Chinnici saltato in aria il 29 luglio del 1983, nominarono un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disinitegrò a colpi di penna l’“unicità” di Cosa Nostra sparpagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato. Nei corridoi del Tribunale parlarono di “spezzatino antimafia”. Era la fine di un “metodo” di lavoro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati.

Un “segnale” per Giovanni Falcone, dentro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato.

Qualche mese dopo questa vergognosa vicenda interna alla magistratura italiana il procuratore capo della Repubblica di Marsala Paolo Borsellino denunciò “la fine della lotta alla mafia”. In una clamorosa intervista che rilasciò a Saverio Lodato dell’Unità e a me che già scrivevo da quasi dieci anni per Repubblica, Borsellino sferrò un attacco contro le scelte del Csm e accusò la macchina repressiva dello Stato di non muoversi più “dai tempi di Ninni Cassarà e Beppe Montana”, i due funzionari della squadra mobile di Palermo assassinati nel 1985 e che erano stati il “motore” delle indagini di Falcone per istruire il maxi processo.

L’estate siciliana del 1988 se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il “caso Palermo”, con il suo Tribunale ormai chiamato “il Palazzo dei veleni”, le infuocate polemiche sulla mancata nomina di Giovanni Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della polizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani.

Un’estate inquieta. Un’estate che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mattina, nel silenzio più cupo uccisero Alberto Giacomelli, giudice figlio di un giudice che da poco più di un anno aveva lasciato la toga. Un delitto senza.

Senza clamore. Senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato, un delitto senza niente e senza tutto. Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta. Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che già qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte di Assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno. Mese di mattanza il settembre del 1988.

Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa Nostra – che Alberto Giacomelli aveva “pagato” per avere confiscato con un provvedimento un “bene di famiglia”, una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello “zio Totò”, il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Era presidente delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Trapani, defilato, silenzioso, sobrio. Uno che dietro il sipario decideva i destini economici di quei “galantuomini”, che aveva messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non  apparteneva più al mafioso di Corleone che in Sicilia decideva chi doveva vivere e chi doveva morire.

Così è uscito di scena, in punta di piedi, un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi, così è morto in solitudine Alberto Giacomelli. Ci sono delitti e delitti in Sicilia. E alcuni sono meno “importanti” di altri perché non “gridano”, perché le vittime non hanno una storia pubblica tanto clamorosa da prendersi spazio prima ma anche dopo un agguato di mafia.

La Sicilia del 1988 – dei giudici delegittimati e assassinati, dei giornalisti caduti – ha anticipato un 1989 non meno agitato e spaventoso. Prima i pentiti trovati alle porte di Palermo che volevano riprendere una “guerra” con i loro nemici di cosca, poi le lettere del Corvo per isolare ancora di più Giovanni Falcone. E poi ancora l’Addaura, quei candelotti di dinamite sistemati sulla scogliera per uccidere il magistrato. Mafia e non solo mafia. Fu quella volta che Falcone parlò di “menti raffinatissime”. Fu quel giorno del giugno 1989 – il 21 – che Falcone cominciò a morire.

Attilio Bolzoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota dell’autore

 

La prima volta che ho incontrato il nome e la storia di Alberto Giacomelli è stato durante una delle mie prime udienze da praticante avvocato. Poco prima di entrare nell’aula penale al secondo piano del Tribunale di Trapani, incrociai una targa con su scritto “Aula Presidente  Alberto Giacomelli”. Mi soffermai a lungo a fissarla, poi entrai in aula.

Da allora non sentii più nulla su quel giudice ucciso a Trapani quando era già in pensione. Lo “incontrai” nuovamente in una scuola siciliana: la docente che mi invitò, insieme a Rosaria Cascio, per parlare del nostro libro sull’eredità di padre Pino Puglisi, mi raccontò di tutto il bellissimo calendario di incontri che avevano stilato in occasione del Progetto-Concorso Nazionale di Legalità intitolato ad Accursio Miraglia,[1] nel 70° della ricorrenza e dell’ultimo incontro sulla storia e sull’esempio di Alberto Giacomelli, grazie alla presenza di don Giuseppe, il figlio.

Una storia bellissima quella del giudice Giacomelli ma coperta dal silenzio. Dopo mesi di studio e assidue ricerche, continuo a non trovare una risposta chiara del perché una storia così importante è stata quasi lasciata cadere nel dimenticatoio della memoria. Quella memoria che è l’anima di una comunità e che il nostro Paese, purtroppo, ha dimostrato di avere il difetto di dimenticare in fretta la propria storia.

L’idea di scrivere questo libro nasce il 21 marzo 2017, durante un volo partito da Trapani e diretto a Bologna. Proprio a Trapani, nella città del giudice, si era tenuta la XXII Giornata nazionale della memoria e dell’impegno  in ricordo delle vittime innocenti delle mafia. Un’idea che si è trasformata, piano piano, in necessità dopo aver studiato gli incartamenti giudiziari e aver incontrato chi il giudice ucciso il 14 settembre del 1988 per mano mafiosa lo aveva conosciuto.

Quella che vi consegno è il racconto della vita di Alberto Giacomelli, prima come uomo che come giudice. È la storia di un uomo buono, mite, sempre pronto al dialogo e a prendersi cura delle persone. Un uomo al quale il nostro Paese deve essere profondamente grato. Scavando nella sua storia, grazie soprattutto alla testimonianza di chi lo ha conosciuto e di chi ha conservato il ricordo di questa figura all’interno del Palazzo di Giustizia di Trapani, torna subito in mente l’imperativo categorico di Immanuel Kant. Il filosofo tedesco nella “Critica della ragion pratica” scriveva: “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona, quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo”.

L’umanità, ecco.

Quello che ha sempre distinto Alberto Giacomelli.

 

 

[1] Sindacalista e segretario della Camera del Lavoro di Sciacca barbaramente ucciso dalla mafia il 4 gennaio 1947.