“Non vi è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può avere certamente determinato l’effetto della accelerazione dell’omicidio Borsellino, con le finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente da istituzioni dello Stato”. Ecco spiegato, secondo la Corte d’assise di Palermo, il motivo che portò i boss ad accelerare l’omicidio del giudice Paolo Borsellino. E’ uno dei passaggi della sentenza, lunga oltre 5.200 pagine, e depositata in cancelleria.

“Non vi è dubbio” che i contatti fra gli ufficiali dei carabinieri Mori e De Donno con Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel ministro dell’Interno che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, “ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”, dicono i giudici, che hanno condannato il generale Mario Mori e il generale Antonio Subranni.

RIINA – “E’ logico ritenere che Riina – si legge in un altro dei passaggi delle motivazioni della sentenza -, compiacendosi dell’effetto positivo per l’organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare con la strage di via D’Amelio quella straordinaria manifestazione di forza criminale già attuata a Capaci per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato e ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi era stata la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili”. Per i giudici, “può ritenersi provato che l’originario intento di Riina maturato già prima della pronuncia della sentenza della Corte di cassazione all’esito del maxi processo e che fu recepito senza alcuna opposizione all’interno di Cosa nostra fu quello di scatenare la prima vendetta uccidendo i giudici Falcone e Borsellino quali nemici storici della mafia responsabilità della debacle che si preannunciava con la sentenza e alcuni politici iniziando da Salvo Lima che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina”.

STRAGI 1992 – E ancora: “Il cedimento dello Stato, di fatto iniziato dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti e ancora più evidenziatosi dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l’impossibilità di fronteggiare quell’escalation criminale, senza pari nella storia del Paese, in un momento di forte fragilità delle istituzioni” si legge ancora in uno dei passaggi della sentenza del processo Stato-mafia.

APPALTI – Inoltre, “può ritenersi certo che il dottor Borsellino nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la sua morte si sia occupato del rapporto ‘Mafia e appalti’. Tuttavia, non vi è alcun elemento di prova che possa collegare tale evenienza alla improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottor Borsellino, se si tiene conto che nessuno spunto idoneo a collegare tra la vicenda ‘Mafia e appalti’ con la morte del dottor Borsellino è possibile trarre dalle dichiarazioni dei tanti collaboratori di giustizia esaminati a cui la vicenda era ben nota”. Il rapporto ‘Mafia e appalti’, realizzato dal Ros dei carabinieri, aveva puntato l’attenzione sulla spartizione delle opere in Sicilia secondo un rigido schema a tre: mafia, politica e imprese.

LA CORTE – “Il processo (Stato-mafia, ndr) – si legge inoltre – ha assegnato a questa Corte un incarico arduo e pressoché titanico, perché i fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa specificamente contestata, l’articolo 338 del Codice penale, hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale compreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri”.

IL RUOLO DI DELL’UTRI – I giudici scrivono poi di Marcello Dell’Utri, “come intermediario delle minacce di Cosa nostra a Silvio Berlusconi non si colloca nel momento in cui quest’ultimo decise di scendere in politica, ma fu espresso dopo che fu formato e insediato il nuovo governo presieduto proprio da Berlusconi”. L’ex senatore, che sta già scontando una pena per mafia, è stato condannato a 12 anni di carcere per minaccia o violenza a corpo politico dello Stato.

I giudici proseguono: “Seppure non vi sia e non possa esservi prova diretta sull’inoltro della minaccia da Dell’Utri a Berlusconi (perché ovviamente soltanto l’uno e l’altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui) vi sono tuttavia ragioni logico-fattuali che conducono a non dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con cosa nostra mediati da Vittorio Mangano (e in precedenza, in altri casi, da Gaetano Cina’)”. “Senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi – si legge ancora nella sentenza – Dell’Utri non avrebbe potuto ovviamente di disporre di così ingenti somme, pagate, secondo i magistrati, fino a dicembre 1994. L’altro aspetto è l’effettivo tentativo di approvazione di una norma che avrebbe cambiato le modalità di arresto dei mafiosi, di cui parla il pentito Salvatore Cucuzza, che lo avrebbe appreso da Mangano. Norma che effettivamente era contenuta in un provvedimento legislativo poi non approvato”.

“Il riscontro dimostra ulteriormente che Dell’Utri continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi anche dopo l’insediamento del governo da quest’ultimo presieduto, perché soltanto Berlusconi, quale presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo, tentato con l’approvazione del decreto legge 440 del 14 luglio 94”.

Adnkronos