Quel che colpisce è il silenzio. Di questo governo, di questo ministro dell’Interno, di questo ministro del Lavoro, che di fronte a un delitto come quello di Soumaila Sacko – il trentenne sindacalista maliano ucciso come un cane nel giorno della festa della Repubblica – scelgono di stare zitti, quando avrebbero avuto una grande occasione per spazzare in un sol colpo le accuse di un esecutivo razzista e xenofobo.

Soumaila era un bellissimo ragazzo di colore, aveva una compagna e una figlia di cinque anni che aveva lasciato nel Mali per cercare nel nostro Paese una condizione di lavoro più civile e accettabile – tre Euro al giorno – di quella che si era messo alle spalle. Da anni, come immigrato regolare, era impegnato nelle lotte sindacali per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti in nero che operano in una terra difficile come la Calabria, nella zona tra San Ferdinando e Vibo Valentia.

Qualcuno lo ha aspettato e gli ha sparato un colpo di fucile in fronte mentre, assieme a due ragazzi come lui, cercava dei pezzi di lamiera per migliorare il tetto della poverissima baracca dove, con altri braccianti di colore, era costretto a dormire. Dopo averlo ucciso, il suo assassino se n’è andato come se nulla fosse, convinto evidentemente che “il clima” è favorevole e quindi un “nero” può essere ammazzato come e quando si vuole, perché tanto, silenzio c’era e silenzio ci sarà, o al massimo ci sono dichiarazioni come quelle del ministro Salvini, secondo il quale, mentre giù in Calabria succedono fatti del genere, “per gli immigrati irregolari la pacchia è finita”, stop.

L’omicidio di Soumaila Sacko ricorda quelli dei tanti sindacalisti uccisi in Sicilia tra gli anni Quaranta e Cinquanta in una terra molto simile alla Calabria di oggi. Stesse battaglie per migliorare le condizioni di lavoro dei braccianti. Stessa mafia belluina e selvaggia nell’impedire di fare un solo passo avanti nel campo dei diritti civili. Stesso silenzio assordante della politica, allora mossa dalle collusioni e dagli interessi, oggi da categorie che ci auguriamo vivamente che non siano quelle che l’Europa ci rinfaccia. L’unica differenza è che allora si moriva su un prato pieno di margherite, mentre oggi si muore sul pavimento di cemento di una fabbrica dismessa nel cui sottosuolo si sospetta che siano stati stoccati illecitamente oltre centotrentacinquemila tonnellate di rifiuti tossici, come se uno strato di inciviltà si sovrapponesse ad un altro che non si vede eppure c’è o potrebbe esserci.

Quello sparo echeggiato nella Piana di San Ferdinando dovrebbe esplodere nelle coscienze dell’Italia migliore come un monito, come un avvertimento a non abbassare la guardia, a continuare certe battaglie per non fare sprofondare il nostro Paese nelle tenebre del razzismo e dell’ignoranza.

Immagine d’apertura: Soumaila Sacko

Luciano Mirone