Il 9 maggio 1978 il corpo senza vita di Aldo Moro viene ritrovato dentro il bagagliaio di una Renault 4 posteggiata a Roma in via Caetani, a metà strada tra piazza del Gesù, dove c’è la sede della Democrazia cristiana, e via delle Botteghe Oscure, dove c’è la sede del Pci. Pare che soltanto nelle ultime settimane di prigionia sia stata decisa l’esecuzione, quando lo statista, durante gli interrogatori effettuati nella «prigione del popolo», svela ai brigatisti il ruolo di Gladio, della Cia e di Andreotti, particolari che a quel tempo devono rimanere segreti.
Una decisione – secondo le indagini – presa in due riunioni parallele: quella dei brigatisti che tengono in ostaggio Moro – il cui gruppo subisce una spaccatura, tanto che alla fine la proposta viene messa ai voti – e quella dei vertici istituzionali che decidono l’assassinio del presidente Dc. Il «punto di non ritorno» sarebbe stato costituito dai segreti che Moro avrebbe svelato proprio negli ultimi giorni.
Maria Fida Moro: «Lo sapevano tutti dove era nascosto mio padre e nessuno ha fatto nulla per salvarlo. C’è stata una volontà politica di farlo uccidere. Ho scritto a Cossiga: “Le lacrime non lavano il sangue”. Cossiga non ha risposto, ma è responsabile della morte di mio padre, come tanti altri».
Ferdinando Imposimato: «Pieczenik disse a Emanuel Amarà, grande giornalista francese: “Moro era disperato e doveva senza dubbio fare ai suoi carcerieri rivelazioni importanti su uomini politici come Andreotti. È stato allora che Cossiga e io ci siamo detti che era arrivato il momento di mettere le Br con le spalle al muro. Abbandonare Moro e lasciare che morisse con le sue rivelazioni. Sono stato io a preparare la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro, allo scopo di stabilizzare la situazione italiana”».
Prosegue Imposimato: «Esattamente la filosofia che ispirò la Strategia della Tensione. In realtà non c’è stata alcuna fermezza, c’è stata una vergognosa messa in scena: il falso comunicato numero 7 che concorse ad accelerare la uccisione di Moro da parte delle Br. Il piano fu attuato da uomini della P2 al vertice dei servizi militari, attraverso mafiosi della Magliana. Lo disse Pieczenik e lo ripeté Danilo Abbruciati al giornalista Luigi Cavallo: “Per Moro abbiamo fatto tutto e subito”».
«Dopo un’iniziale disponibilità», scrivono i giudici perugini, «coloro che avevano poteri decisionali, primi fra tutti il presidente del Consiglio Andreotti, e il ministro dell’Interno Cossiga, avevano operato una scelta di chiusura totale, rifiutando addirittura un’ipotesi di trattativa minima».
«Ho atteso trent’anni», scrive Steve Pieczenik, «per rivelare questa storia. Chiedo perdono alla famiglia Moro, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate rosse per farlo uccidere».
Un «piccolo» particolare. Il 27 aprile 1981 le Br rapiscono a Torre del Greco l’assessore all’Urbanistica della Regione Campania, Ciro Cirillo, grande elettore dei potenti ras nazionali della Democrazia cristiana.
Se appena tre anni prima Moro è stato lasciato morire, per un assessore regionale che ad ogni elezione procaccia centinaia di migliaia di voti per i mammasantissima della Dc, lo Stato si mobilita alla grande. Il Sismi – in particolare il piduista Pietro Musumeci – assume il comando delle operazioni e intavola una «torbida trattativa» alla quale partecipano lo stesso servizio, la Democrazia cristiana, la camorra di Raffaele Cutolo e le Brigate rosse. Viene pagato un riscatto di svariati miliardi. A fare la colletta pensa soprattutto un ras della Dc campana, Antonio Gava: riunisce gli imprenditori a casa sua, spiega la cosa e in qualche ora raccoglie la cifra da consegnare alle Br e a Cutolo. Gli imprenditori sono quelli che hanno fatto il «sacco» della città e che si accingono a mettere le mani sulla ricostruzione post terremoto. Ma, come scrive il Comitato di controllo sui servizi, «il riscatto da pagarsi alle Brigate rosse costituiva solo una parte della partita, e la concessione di contropartite ai clan camorristici di Cutolo, elevati al rango di intermediari tra lo Stato e le formazioni terroristiche, era altrettanto necessaria».
Luciano Mirone
4^ puntata. Fine
(tratto dal libro “A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il generale Dalla Chiesa”, Castelvecchi editore)
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