Il Giro d’Italia al tuo paese. Con la gente assiepata nella via principale e seduta sui gradini della chiesa e i ragazzi in festa perché per un giorno non sono andati a scuola. Il Giro dell’Italia contadina di un tempo con i dialetti dei suoi corridori, con le iperboli del vincitore di una tappa che una volta disse: “Sono contento di essere arrivato uno”, e dell’Italia super tecnologizzata di oggi con i suoi sponsor, i suoi elicotteri, i suoi droni con telecamere incorporate. Il Giro d’Italia con quel colore preponderante, il rosa, che vedi nei palloncini dei bambini e nelle bandierine dislocate lungo la via Roma, nei fiori del tuo balcone e nel cartellone piazzato davanti alla Chianca che saluta i ciclisti arrivati fin qui.
Il Giro d’Italia è una festa, come la festa paesana, capace di riunire un popolo e di farlo gioire, di trasmettere messaggi come quello di applaudire i battistrada ma anche gli ultimi rimasti staccati dal gruppo che salgono lungo il pavé stremati dalla fatica.
Il Giro d’Italia è l’orgoglio di mostrare le bellezze della tua Terra a tutto il mondo, col potere straordinario di cancellare per qualche ora le oscenità che vorresti cancellare per sempre, come le montagne di spazzatura ai bordi della strada e l’asfalto pieno di voragini, spariti come per miracolo qualche ora prima della tappa, o meglio rabberciati per l’occasione: la spazzatura risucchiata (ma non del tutto ingoiata) dalle potenti macchine, le voragini rattoppate da una mano d’asfalto che nei prossimi giorni salterà di nuovo, al contrario della strada dell’Etna che presenta un manto freschissimo e nero. Purtroppo il Giro d’Italia non fa il miracolo di eliminare lo scandaloso abusivismo edilizio che vedi lungo il percorso, ed è in quel momento che capisci che lo sforzo per abbruttire questa Terra sarà sempre vano perché la bellezza che ci ha regalato il Padreterno è così preponderante che prevarrà sempre su qualsiasi scempio umano.
Sì, sono decisamente le cose belle a prendere il sopravvento. Ecco allora le dolci colline coltivate a frumento dell’ennese, le chiese bianche e imponenti dei magnifici centri storici, la campagna arsa dalla calura del centro Sicilia e quella lussureggiante dei giardini di aranci della Piana di Catania che piano piano lasciano il posto ai fichidindia, agli ulivi, ai mandorli, ai pistacchi di mezza costa, con l’Etna che domina su ogni cosa con qualche spruzzo di bianco in cima e l’immancabile filo di fumo direzionato ora a destra ora a sinistra secondo il vento.
E poi improvvisamente il castello normanno di Paternò costruito da Federico II, e dopo qualche chilometro di campagna, l’Aquarossa con il rudere della vecchia sorgente dalla quale fino a quarant’anni fa sgorgava l’acqua frizzante e le antiche masserie un tempo animate e i muretti a secco costruiti cento, duecento, trecento anni fa dai contadini, e poi contrada Cicuta dove mio padre sfollò con gli abitanti del suo quartiere, e poi finalmente la Chiesa Madre del tuo paese che si staglia verso il cielo, con il “campanone” più grande di Sicilia e i due chilometri di basolato lavico leggermente in salita e tutta quella gente festante come quando gli inglesi entrarono a Belpasso.
Sì, una festa per tutti fin dalle prime ore del mattino, quando gli operai del Giro hanno allestito l’arco con l’avviso dei 25 chilometri all’arrivo, mentre Turi Aia ha cominciato a sfarfalleggiare da un posto all’altro borbottando parole incomprensibili e gli anziani, presi da una particolare ispirazione, hanno ricordato le tappe più antiche passate da qui e i ciclisti più famosi, Bartali, Coppi, Anquetil, Motta, Adorni, Merckx, Gimondi, e tu che evochi i racconti di tuo padre e di
tuo zio Nino che a quattordici anni, per una caduta, fracassarono le biciclette affittate da Turi l’orvu perché la corsa passava dall’Acquarossa e loro finirono all’ospedale.
Ora i corridori transitano davanti al balcone che da oltre un secolo vede di tutto, da Giuseppe De Felice, sindaco di Catania, Padre nobile del partito socialista, che andava al Circolo operai per portare avanti le sue battaglie sullo Statuto dei lavoratori, alle lotte aspre, sanguigne e piene di ideali fra i progressisti d’aciddazzu e i clericali della Democrazia cristiana; dalle sfilate per la vittoria del Belpasso e della Belpassese al grande Adriano De Zan, telecronista di memorabili gare ciclistiche, che una volta, in occasione di una tappa, andò a prendere il caffè al bar Santa Lucia. Il balcone della tua infanzia… quando nelle notti d’estate guardavi le stelle e i tuoi zii ti spiegavano la differenza fra il Gran carro e la stella polare e di fronte c’era don Prazzitu il macellaio che si addormentava sulla sedia dopo una giornata di fatiche.
Adesso il serpentone del Giro sparisce dalla via Roma e si inerpica fra i boschi della Montagna dove arriverà tra alcuni minuti. Fra poco i ciclisti saranno al cospetto di Efesto, dio del fuoco che dentro il vulcano forgia il ferro per offrirlo al vincitore.
Luciano Mirone
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