Una storia di presunte estorsioni imposte a Belpasso (Catania) nel 2005 attraverso l’intimidazione che deriva dalla forza di Cosa nostra. Una storia in cui – secondo i magistrati – a fare da intermediario sarebbe stato l’imprenditore Santo Tomasello che, “in concorso e riunione” con Ignazio Barbagallo (oggi collaboratore di giustizia sottoposto alla detenzione domiciliare presso il servizio centrale di protezione), Mirko Pompeo Casesa (detenuto per altra causa presso il carcere Pagliarelli di Palermo), e Nicolò Squillace detto Mattiddina della frazione Piano Tavola di Belpasso (anche lui detenuto per altra causa presso la casa di reclusione di Asti) e con altri soggetti non identificati, “con violenza e minacce” avrebbero “paventato danni materiali e furti” nel cantiere edile presso l’area artigianale del comune di Centuripe (Enna) gestito da ditte riconducibili all’imprenditore belpassese Mario Cavallaro (allora socio dello stesso Tomasello), “qualora le imprese che svolgevano i lavori non si fossero messe ‘a posto’ con la famiglia mafiosa di Enna”.

La prima udienza del processo – fissata ieri mattina nella seconda sezione penale del Tribunale di Catania – è stata rinviata al 25 ottobre per alcune questioni di carattere burocratico.

Secondo il Pm Giuseppe Sturiale e il Gip Rosa Anna Recupido, “le suddette minacce e le richieste estorsive” provenivano “anche attraverso Nicolò Squillaci, Ignazio Barbagallo (all’epoca dei fatti responsabile per la famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano nel territorio di Belpasso, San Pietro Clarenza e Nicolosi) e Santo Tomasello”.

Tutto inizia, secondo la ricostruzione dei magistrati, con il furto di un mezzo meccanico (una mini pala Caterpillar tipo Bob Cat) di proprietà della La. Ma. Cos., ditta intestata a Laura Laudani, moglie di Cavallaro. Secondo i giudici, il sodalizio faceva pervenire “le richieste estorsive attraverso” le persone suddette.

Per la restituzione del mezzo Cavallaro avrebbe dovuto sborsare 20mila Euro affinché si “mettesse a posto” con la Famiglia mafiosa di Enna, ed altri 5mila per ottenere la stessa finalità con il gruppo degli Squillaci-Mattiddina.

A fare da trait d’union con le cosche sarebbe stato, come detto, il socio di Cavallaro, Santo Tomasello che, a parere dei magistrati, avrebbe agito “attraverso minacce di conseguenze fisiche, sia facendo valere il proprio rapporto di amicizia” con i suddetti affiliati, “sia imponendo al Cavallaro di versargli per intero la somma, assicurando che avrebbe ‘sistemato’ la faccenda”.

Secondo i giudici, la vicenda non finisce qui. Tomasello e Barbagallo – in concorso con soggetti non identificati – un giorno avrebbero “bloccato con la propria auto la strada al Cavallaro”, dicendogli che “l’amicizia era finita” e che se non avesse corrisposto la somma stabilita, “lo avrebbero messo dentro i copertoni”, ricordando un macabro  rituale della mafia belpassese ai tempi di Giuseppe Pulvirenti ‘U Malpassoto, che soleva bruciare i cadaveri delle sue vittime nelle gomme delle auto.

A parere del Gip ci sarebbe anche una terza fase, stavolta con un nuovo protagonista – Mirko Pompeo Casesa –  e il solito Tomasello. Nuova la località: Mascalucia, alle porte di Catania. Vittima sempre Cavallaro che avrebbe dovuto scucire altri 19mila Euro “per mantenere la protezione degli amici di Mascalucia che gli avrebbero ‘perdonato’ le denunce che aveva sporto, intimandogli che da quel momento in poi ‘avvocati e guardie dovevano stare fuori dai loro discorsi”, costringendo l’imprenditore – che non aveva immediata disponibilità dell’importo – ad emettere un assegno a vista di 7mila 500 Euro.

Barbara Contrafatto