Ha ragione Luigi Di Maio quando dice che la condanna del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e dei vertici del Ros – nell’ambito del processo Trattativa – sancisce la fine della Seconda Repubblica e inaugura ufficialmente la Terza? Troppo presto per dirlo. Dal punto di vista giudiziario ricordiamo che si tratta di una sentenza di primo grado e con i clamorosi capovolgimenti ai quali siamo abituati in Italia (vedi caso Andreotti) non ci meraviglieremmo in un rovesciamento del verdetto di oggi.
Dal punto di vista politico la situazione è talmente confusa che parlare di fine della Seconda Repubblica è piuttosto prematuro. Tutt’al più possiamo dire che stiamo vivendo un periodo di transizione che, come tutti i periodi del genere, può rifluire verso il passato o proiettarsi verso il futuro. La sentenza del processo Trattativa arriva in un momento assai delicato per la vita politica del nostro Paese. A distanza di un mese e mezzo dalle elezioni non si riesce ancora a formare un governo: la legge elettorale approvata dall’ex maggioranza Pd-Centrodestra non consente un esecutivo stabile. La presenza di Berlusconi all’interno del polo moderato non lascia ben sperare. Non perché l’ex presidente del Consiglio non voglia formare un governo in cui sia lui al centro della scena politica, ma perché il Movimento 5 Stelle pone un deciso aut aut sulla partecipazione dell’ex cavaliere.
Tutto questo arriva in un momento in cui la Corte d’Assise si Palermo ci dice che Marcello Dell’Utri ha rappresentato “la cinghia di trasmissione fra Cosa nostra, la politica e i poteri occulti” nell’ambito della trattativa intavolata dallo Stato e dalla mafia all’indomani del delitto Lima e delle stragi di Capaci e di via D’Amelio per evitare altri ricatti e ulteriori spargimenti di sangue. Se pensiamo che Berlusconi sia stato – secondo le carte processuali – il nuovo referente dei clan al posto di Andreotti, che per vent’anni ha governato questa Nazione, e che spesso si è lasciato andare a giudizi lusinghieri nei confronti dello stesso Dell’Utri e di Vittorio Mangano – ufficialmente ex “stalliere” della sua villa di Arcore, sostanzialmente, secondo i magistrati, uomo di punta della mafia siciliana – abbiamo il quadro terrificante di uno Stato in cui certi pezzi deviati hanno agito e governato mettendo a rischio la tenuta democratica delle istituzioni.
Non bisogna dimenticare – in questo ambito – il ruolo “culturale” svolto da Vittorio Sgarbi e da Giuliano Ferrara, da Paolo Liguori e da Emilio Fede, da Bruno Vespa e da altri giornalisti che hanno contribuito non poco ad uno dei plagi di massa più potenti della storia d’Italia.
Non scendere a patti con un personaggio come Berlusconi – a prescindere dalla formazione del governo – , per il M5S vuol dire rafforzare una credibilità politica basata sulla “questione morale” che il Pd avrebbe dovuto mettere in cima alla sua agenda politica, come fece a suo tempo Enrico Berlinguer, e che invece non ha posto per niente. In compenso abbiamo assistito agli inciuci più incredibili sia a livello nazionale che in Sicilia.
Per non parlare della sconcertante relazione sulla morte dell’urologo Attilio Manca stilata dalla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi. Un caso esemplare di “larghe intese” fra Pd e Centrodestra che mette l’omissione e la bugia al centro dell’attività politica, pur di non parlare di ciò che dicono i pentiti, e cioè che il medico di Barcellona Pozzo di Gotto è stato ucciso nel contesto dell’operazione chirurgica subita dal boss Bernardo Provenzano – uomo cardine della Trattativa – nel 2003. Leggere per credere.
Sì, forse è presto per dire che con questa sentenza è finita la Seconda Repubblica, ma non è mai troppo tardi per prendere le distanze da personaggi impresentabili come l’ex Cav.
Luciano Mirone
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